Se è il governo di nessuno

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 In Italia, almeno in questa fase, si sta assistendo invece ad uno strano paradosso: l’esecutivo rischia di non avere paternità. Non si tratta di una questione numerica: è evidente che a Montecitorio e al Senato la squadra guidata da Enrico Letta ha ottenuto — anche di recente — i voti per la fiducia. È in gioco semmai l’appoggio politico. Il riconoscimento delle sue scelte, la difesa di alcune opzioni e soprattutto la definizione di una rotta.
Da questo punto di vista tutto appare sfumato. Né la maggioranza nelle due Camere né una parte significativa dell’opinione pubblica sembra riconoscersi in questa compagine. L’effetto può essere dirompente. Perché l’immagine fornita è quella di un “governo di nessuno”. Di cui nessuno, appunto, si assume la responsabilità e l’onere di difendere. Proprio come De Gasperi — guarda caso dopo il fallimento della cosiddetta legge elettorale truffa — definì «governo amico» quello presieduto nel ‘53 dal suo compagno di partito Giuseppe Pella.
Il premier ha sicuramente la sponda dal Quirinale ma il “cappello protettivo” di Napolitano non basta più. È indubbio che anche alcuni ministri — per ultimo quello dell’Economia Saccomanni — non hanno fatto niente per invertire questo trend. Il caso degli scatti di stipendio per professori o le astuzie sulla Tasi hanno amplificato una sensazione che si è affermata negli ultimi due mesi. Da quando cioè Silvio Berlusconi ha deciso di uscire dalla “strana coalizione” riducendone la dimensione e da quando Matteo Renzi è stato eletto alla segreteria del Pd. Forse, in un altro contesto, quegli stessi incidenti sarebbero stati cicatrizzati senza eccessive conseguenze e in minor tempo. Ma in questo caso tutto lascia il campo alle incertezze e a uno stato confusionale.
È chiaro che se non scatta un’inversione di tendenza sarà difficile sottrarsi alla stagnazione e al logoramento. Soprattutto sarà ancor più complicato arrivare al 2015 per le elezioni politiche. Il cambio di passo invocato da Letta è possibile solo se il premier e il segretario del Pd trovano un’intesa. I due potrebbero incontrarsi già oggi. Un faccia a faccia che probabilmente non sarà affatto fluido. Viaggiano su lunghezze d’onda diverse. Soprattutto temono di farsi le scarpe vicendevolmente. Ma c’è un dato incontrovertibile con il quale tutti devono fare i conti: il sindaco di Firenze, da quando è arrivato alla guida del suo partito, ha imposto l’agenda a tutta la politica italiana e al suo schieramento. Gli ultimi sondaggi assegnano al Partito democratico una crescita sostanziosa anche rispetto ai giorni delle primarie. Un momento che tradizionalmente garantisce share positivi.
Anche Renzi, però, deve fare i conti con il vero punto interrogativo del 2014: la legge elettorale. Senza la riforma è praticamente impossibile tornare alle urne. Si voterebbe con un sistema proporzionale che garantirebbe l’assenza di un vincitore. Il sindaco di Firenze ne è cosciente. Forse anche per questo ieri ha ufficializzato la sua ricandidatura al Comune. Un modo per provare a rassicurare sulla sua disponibilità ad aspettare un anno prima di tentare la scalata a Palazzo Chigi.
Nello stesso tempo il leader democratico ha bisogno di certezze. Il patto di governo serve a riempire il 2014 di risultati da spendere in campagna elettorale. Una riforma che cancelli per sempre — o quasi — le parole “larghe intese”, la trasformazione del Senato, le misure per il lavoro e le unioni civili. Un obiettivo quest’ultimo che anche Angelino Alfano è pronto ad accettare. Spara contro i matrimoni gay per poi poter dire sì al riconoscimento delle altre convivenze. Renzi è convinto che questa sia una chance unica: «Fare in 10 mesi quello che non si è fatto in tanti anni».
Il patto non potrà che essere “targato” su questi obiettivi. E sulle regole della prossima competizione elettorale. Sapendo che il Nuovo centrodestra solo in un caso è pronto a provocare la crisi di governo: se il capo del Pd stringerà l’accordo con Berlusconi a favore del modello elettorale spagnolo che favorisce i grandi partiti. Il punto di incontro nella coalizione di governo è rappresentato dal doppio turno simile a quello dei sindaci e Renzi è deciso ad avallare questa soluzione solo se tutti gli alleati gli garantiscono l’approvazione in tempi rapidi e senza trabocchetti a Palazzo Madama dove la maggioranza è meno ampia rispetto a Montecitorio.
Un’intesa sull’agenda dell’esecutivo e sul “dopo-Porcellum” non potrà che comportare anche un rimpasto. Letta ne ha bisogno per dare nuovo ossigeno alla sua squadra e per sostituire qualche ministro che si è rivelato inaffidabile. Ma probabilmente ne avrà bisogno anche il segretario del Pd. Che è ormai impegnato in una lunga campagna elettorale. Prima le europee e poi le nazionali. Ai due appuntamenti deve arrivare con il carniere pieno e con un governo che non può più essere “figlio di nessuno”. Perché gli eventuali effetti negativi di una guida senza padri si rifletterà comunque sul partito principale che coincide con il partito di cui fa parte il presidente del Consiglio.
Se la fase due del governo non si concretizzerà e se non ci sarà il riconoscimento di una “unione politica di fatto”, allora tutto potrà precipitare. Non a caso qualcuno — soprattutto nel Partito democratico — inizia a sottolineare che la riduzione del rischio economico, la contrazione dello spread tra Btp e Bund tedeschi e un minimo di ripresa, potrebbero autorizzare a tornare al voto in tempi brevissimi, già a maggio insieme all’elezione per l’assemblea di Strasburgo.


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