Il destino della gauche francese anche Hollande alla svolta liberale

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Era la fine del 1982, la popolarità del primo presidente di sinistra della V Repubblica era bassissima e la politica del governo Mauroy — nazionalizzazioni e tasse — aveva condotto il Paese alla paralisi. Qualche imprenditore come per esempio il giovane Bernard Arnault, futuro uomo più ricco d’Europa, aveva lasciato la Francia per gli Stati Uniti, proprio come oggi molti varcano il confine con il Belgio fuggendo dalle imposte (aliquota media 46%, nell’Ue è al 40%) e dal clima inospitale per gli affari.
Il pragmatico Mitterrand decise in fretta che l’esperimento massimalista era finito, e nel celebre discorso di Figeac pronunciò per la prima volta parole di distensione nei confronti delle imprese, chiedendo al premier Mauroy di dare respiro a chi era in grado di creare posti di lavoro. Poco dopo venne l’addio alla scala mobile, e nel discorso di fine anno ai francesi Mitterrand annunciò minori oneri sociali per le aziende, affidandosi al giovanissimo ministro del Budget Laurent Fabius (oggi agli Esteri) e soprattutto dell’Economia Jacques Delors per raddrizzare una situazione che sembrava disperata. L’economia ripartì. Nel 1988 Mitterrand ottenne una rielezione che a 18 mesi dall’inizio del primo mandato sembrava impossibile.
«Il socialismo alla francese non è una bibbia», sembra ripetere oggi François Hollande, più o meno nella stessa fase della presidenza in cui si trovava il suo maestro. Nel discorso del 31 dicembre Hollande si è rivolto soprattutto agli imprenditori proponendo un «patto di responsabilità» — meno tasse a chi assume —, ha parlato di «politica economica dell’offerta» e annunciato misure da precisare meglio nella conferenza stampa del 14 gennaio, ma che già fanno parlare di «svolta liberal-socialista». La situazione è grave, l’ala sinistra del partito è stata assecondata abbastanza: Hollande oggi sterza al centro, proprio come fece il suo unico predecessore della gauche .
Stefano Montefiori


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