Afghanistan, i bimbi kamikaze l’ultimo esercito dei Taliban

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HA AVUTO paura, come spesso accade ai più piccoli. Così tanta paura da comportarsi in maniera strana e attirare su di sé l’attenzione di un soldato, che l’ha fermata scoprendole addosso un cintura esplosiva: quella con cui avrebbe dovuto far saltare in aria i militari e aprirsi le porte del paradiso.
Spozhmay è salva grazie alla paura: la bambina (8 o 10 anni a seconda delle fonti) è stata arrestata nell’Helmand, provincia meridionale dell’Afghanistan, poco prima di compiere la missione suicida per la quale era stata addestrata dal fratello, importante comandante Taliban della zona: i reporter a cui la polizia l’ha mostrata la descrivono come «estremamente confusa». L’unica foto diffusa la mostra sperduta, seduta da sola su un divano rosa e bianco, con la testa avvolta da uno scialle: una bambina in una storia evidentemente molto più grande di lei.
Il primo sentimento che si prova guardando l’immagine è quello di pietà, ma in fin dei conti, spiega Mia Bloom — che sul tema dei minori impiegati dalle organizzazioni terroristiche sta scrivendo un libro — Spozhmay è una bambina fortunata. «L’uso di bimbi kamikaze è decisamente in aumento, mentre in diminuzione è la loro età – spiega l’esperta qualche anno fa parlavamo di casi sporadici di quattordicenni o dodicenni coinvolti in azioni di jihad, oggi vediamo bimbi di 7-8 anni con indosso una cintura
esplosiva. Bambini che, come in questo caso, non hanno la minima idea di cosa stanno facendo e si salvano perché solo perché, colti dal panico, non riescono a portare a termine la missione e finiscono con il farsi scoprire».
Per verificare le parole della studiosa basta scorrere qualche dato di cronaca: nel 2012 il governo afgano ha sostenuto di aver
sventato un centinaio di attacchi suicidi di cui erano stati incaricati minori. Nel 2011, sempre in Afghanistan, il presidente Hamid Karzai ha perdonato in una cerimonia pubblica una dozzina di ragazzine arrestate mentre stavano per compiere attacchi contro obiettivi governativi. E nello stesso anno le Nazioni Unite, Human rights watch e la commissione indipendente
per i diritti umani di Kabul hanno documentato decine di casi di attentati compiuti da minori.
Il fenomeno non riguarda solo l’Afghanistan: in Iraq da anni i bambini vengono usati come “esche”, fatti viaggiare insieme agli adulti su macchine imbottite di esplosivi per evitare i controlli dei militari. In Pakistan è di ottobre la notizia del rapimento di un centinaio di bambini da parte delle milizie Taliban nelle aree tribali, dove il controllo del governo è più debole: secondo gli esperti sono finiti nelle più estremiste fra le madrase, le scuole religiose, dove gli studenti vengono allevati nel culto della guerra santa. «Purtroppo — prosegue ancora Bloom — siamo di fronte a un fenomeno in espansione, soprattutto fra i gruppi musulmani di matrice estremista: sempre meno queste organizzazioni sono in grado di reclutare o mobilitare adulti consenzienti. Così si rivolgono ai bambini, più facili da convincere ma molto meno affidabili: è un segno di debolezza, ma non per questo è poco inquietante. Prendiamo il caso della bimba dell’Helmand: se è vero quello che raccontano i media, a spingerla ad agire è stato suo fratello, un comandante Taliban. Per anni i leader di queste organizzazioni hanno tenuto i familiari lontani dal campo di azione: non avevano bisogno di loro, avevano abbastanza manovalanza. Ora è il contrario: si rivolgono a loro perché non riescono a convincere gli altri ».
Un’analisi che non spinge comunque all’ottimismo: il numero dei partecipanti agli speciali corsi di recupero per minori ex-jihadisti voluti dal governo pachistano è in aumento. In qualche caso si tratta di bambini rapiti, in altri di figli ceduti volontariamente da famiglie che non sono in grado di mantenerli o cercano qualcuno in grado di fornire loro un’istruzione che lo Stato non garantisce.
A dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, che per fermare il terrorismo non bisogna puntare solo su armi e posti di blocco.


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