Beirut, autobomba contro Hezbollah: è strage

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BEIRUT — Non si ferma la spirale del terrore. Un’altra autobomba, guidata da un attentatore suicida, è esplosa ieri pomeriggio poco dopo le quattro, in piena Dahyeh, il cuore della periferia sud di Beirut, roccaforte dell’Hezbollah, a poche decine di metri dall’edificio che ospitava l’ufficio politico del Partito di dio e non lontano dalla residenza conosciuta di Naim al Kassem, il numero 2 dell’organizzazione. Più che un attacco mirato contro questa o quella persona-lità, l’attentato sembra tuttavia diretto contro la popolazione, fra cui si contano 6 morti e una settantina di feriti, e volto a dimostrare che la potente milizia sciita non può ritenersi al sicuro neanche a casa propria.
Le immagini che arrivano dal luogo dell’esplosione non aggiungono nulla ad un a scena già vissuta molte volte in questi ultimi mesi. La guerra siriana ha superato i confini del Libano e i conti aperti in Siria vengono regolati anche a Tripoli, dove ieri sono ripresi i combattimenti tra sunniti e alawiti, a Sidone e a Beirut. E allora ecco una jeep con una carica di 30 chili di tritolo che scivola lentamente lungo la via Aarid, nel quartiere chiamato Haret Hreik, ma a tutti noto semplicemente come Dahyeh, il sobborgo. Una banlieue affollata nell’ora di punta non solo di militanti e simpatizzanti hezbollah, che certo sono la maggioranza, ma anche di sciiti libanesi che hanno scelto di vivere in questo quartiere perché la vita costa meno e i servizi essenziali funzionano. La potente esplosione investe almeno sei palazzi, le fiamme si alzano da decine di macchine, poi arrivano il fumo nero, lo strazio dei corpi smembrati, il silenzio irreale che segue le grandi tragedie.
Se a dettare i tempi, i modi e gli obbiettivi della violenza che sistematicamente esplode in Libano è la crisi siriana, ormai degenerata in un conflitto regionale tra l’Iran e l’Arabia Saudita, rispettivamente schierati con il regime di Assad e con i ribelli che lo combattono, l’attentato di ieri risponde alla logica terroristica di colpire la gente di Dayeh per colpire gli Hezbollah rei di essere intervenuti in Siria a sostegno di Assad. Molte minacce in questo senso erano state rivolte dalle formazioni ribelli al partito di dio, creato, protetto e finanziato dall’Iran. Allo tesso modo, l’attentato della settimana scorsa, che è costato la vita a Mohamed Shatah, consigliere dell’ex
premier Saad Hariri e critico eloquente dell’asse Teheran-Hezbollah, attentato compiuto con autobomba fatta esplodere a poca distanza dagli uffici di Hariri nel nuovo centro di Beirut, va visto come un colpo diretto allo schieramento libanese che appoggia la rivolta contro Assad e di cui Hariri è i leader.
Ma niente in questa guerra è prevedibile e scontato come sembra. La scena è affollata anche di personaggi ambigui. Ora si scopre che Majid al Majid, il saudita che ha rivendicato il doppio attentato del 19 novembre contro l’ambasciata iraniana a Beirut (25 morti) per conto delle brigate “Abdallah Azzam” viveva da un mese nascosto nel campo profughi palestinese di Ain el Hilweh, presso Sidone. È stato arrestato. Teheran ha chiesto di partecipare ai suoi interrogatori. Ma i sauditi lo vogliono a Ryad: faceva parte della lista degli 80 più pericolosi ricercati, dicono.


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