Pasticcini, business (e divieti) Nasce la Amsterdam d’America

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DENVER — C’era un’atmosfera di insolita allegria, venerdì scorso, all’Ufficio Dazi e Licenze della capitale del Colorado. Quando Shawn Phillips, quarantaduenne col pizzetto, già proprietario di una catena di otto negozi di marijuana a scopi medici, ha stretto la mano di una funzionaria in golfino rosa sono esplosi gli applausi e i flash dei fotografi. Shawn ha ricevuto la prima licenza per la vendita di marijuana a scopo ricreativo nello Stato, a partire da Capodanno: lo farà in 3 dei suoi negozi, gli altri 5 resteranno riservati ai pazienti.
Da oltre un anno l’uso della marijuana a scopo ricreativo è legale in Colorado e nello stato di Washington (dopo i referendum del novembre 2012) ma il commercio nei «coffee shop» inizierà per la prima volta a partire dalle 8 del mattino di mercoledì. La città di Denver ha distribuito 14 licenze ai venditori (altre 17 sono a coltivatori e tre a confezionatori di prodotti commestibili) e si prepara insomma a diventare la prima Amsterdam d’America. Seguiranno presto altre licenze: un totale di 348 in 19 città del Colorado (mentre a Washington si partirà in primavera). Qui i residenti potranno comprare un massimo di 28,3 grammi per volta (i turisti 7 grammi, ad un prezzo stimato tra i 50 e i 100 dollari). Ma dovranno fumare in casa propria: non in strada né in negozio come si fa ad Amsterdam.
C’è chi si aspetta una gran folla di turisti: «Un gran casino», immagina Ana Garza, 22 anni, che vede 200 pazienti al giorno in una casupola gialla col cartello «Green Tree» a Boulder, città studentesca: vende marijuana medica da fumare, da mangiare dentro i brownies e da bere in versione cappuccino. «La proprietaria ora vuole aprire anche un negozio ricreativo». L’adiacente cittadina di Longmont, più conservatrice, ha deciso invece di tirarsi fuori: niente «coffee shop» nel suo territorio. «Ma è un errore», dice il sindaco democratico Dennis Coombs, 61 anni, in forma dopo la quotidiana pedalata mattutina. «Boulder incassa già 900mila dollari di tasse grazie alla marijuana medica, e con le vendite a scopo ricreativo la città guadagnerà 5-6 volte tanto. Noi invece non vedremo un centesimo. Secondo me va regolamentata come l’alcol, che personalmente ritengo più pericoloso, ma il consiglio municipale è spaccato, vogliono vedere cosa succede altrove».
Intanto, quegli stessi spinelli che a un’intera generazione vennero descritti a scuola come strumenti di perdizione, promiscuità e follia (vedi film come «Reefer Madness») sono diventati una questione di burocrazia. «Una volta innescato, è stato un processo rapido», spiega Allison Holcomb, avvocata e madre di Seattle che si è guadagnata il soprannome di «Pot Mama» (benché non fumi) perché ha lanciato l’iniziativa che ha portato alla legalizzazione nello stato di Washington. «È iniziato con la marijuana medica in California nel 1996, e ora è legale in 20 stati più D.C. In Colorado sono stati i liberal a spingere per l’uso ricreativo, ma se la gente ha approvato il referendum sia là che a Washington è stato con un messaggio relativamente conservatore: la maggioranza non ama gli spinelli, ma sa che le leggi antidroga non funzionano e vuole eliminare questo business illecito, metterlo sotto controllo, tassarlo. Anche Arizona, California, Oregon, Alaska vogliono seguire la stessa strada». Così ora tutti stanno a vedere se i due Stati pionieri dell’«uso ricreativo» riusciranno a regolarizzare e «contenere» una droga che resta comunque illegale a livello federale.
Benché le autorità abbiano segnalato che non intendono intervenire, la complessità delle norme è tale che la giovane avvocata Hillary Bricken (specializzata in Statuti Marittimi) ha creato il «Canna Law Group» per aiutare a navigaci. Tra i suoi clienti ci sono insospettabili imprenditori come Molly Poiset, nonna, interior designer e pasticcera diplomata a «Le Cordon Bleu» vuole mettere l’erba nei dolci. «Non fumo, preferisco il vino», spiega ammirando le sue «ragazze» (così chiama le piantine). Le idea le è venuta quando alla figlia è stata diagnosticata la leucemia. «Le consigliarono la marijuana per alleviare il dolore, ma lei è una donna d’affari, un “soccer mom”, non si sarebbe mai fatta uno spinello. Un delizioso pasticcino francese, invece, se lo sarebbe mangiato. Li farò in modo che non facciano bene senza farti sballare».
Ora che la marijuana diventa «mainstream», il paradosso più grande è che gli hippie sono i più frustrati. «Quelle stesse persone che ci deridevano per il nostro stile di vita faranno un sacco di soldi», commenta Vivian McPeak. Da 17 anni tiene ogni estate l’«Hempfest» a Seattle, e intanto è diventato nonno e le treccine rasta iniziano a ingrigire. «E’ frustrante, ma è sempre così, la controcultura non riceve mai alcun credito. E’ ipocrita: la gente finiva in carcere, eppure Obama, Bush, Clinton… hanno fumato tutti. Eh già, fumare fa male, uno dei pericoli è che puoi diventare presidente». Però, sorride di soddisfazione ripensando ai poliziotti che, all’ultima «festa della cannabis», distribuivano patatine.
Viviana Mazza


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