Attacchi e autodifesa Il patto di aprile per il Colle vale ancora
ROMA — Ora o mai più. Date «risposte» ai problemi senza precipitare verso il voto. Fate le riforme che un Paese depresso, sfiduciato e quasi in ebollizione a questo punto pretende. Fatele, costruendo una «larga convergenza con le opposizioni» e senza più perdere un giorno, perché «il malessere sociale» generato da una crisi «che morde» rischia di scivolare in forme di «proteste anche indiscriminate». Insomma: l’obiettivo di revisionare qualche capitolo della seconda parte della Costituzione (dal monocameralismo al taglio del numero dei parlamentari, alla semplificazione del processo legislativo, a una decente legge elettorale, tanto per indicare ciò che gli sta più a cuore) è ormai una «questione vitale per la funzionalità e il prestigio del sistema democratico». Sarebbe «fatale» mancarlo. Oltretutto, se ci si trascinasse ancora in un’irresponsabile strategia di «pestare l’acqua nel mortaio», finirebbe per trarne le conseguenze lui stesso. Infatti, avverte che, dopo aver valutato la sostenibilità — «in termini istituzionali e personali» — dell’«alto e gravoso incarico» che gli è stato affidato solo otto mesi fa, il 20 aprile, potrebbe decidere di lasciare.
Oscilla tra la pressione (arma estrema, ieri ricaricata), la denuncia (senza attenuanti) e l’autodifesa (ma al Quirinale preferiscono parlare di «puntualizzazioni») il bilancio di fine anno che Giorgio Napolitano affida all’incontro con le alte cariche dello Stato. Un anno in cui, dopo il voto del 24 e 25 febbraio, «si è dischiusa una finestra per tempi eccezionali», come disse all’insediamento per il nuovo, e dunque «eccezionale», mandato. Un passaggio che qualcuno, con «uno spudorato rovesciamento della verità», vorrebbe adesso «oscurare» con ricostruzioni che devono essergli insopportabili se si preoccupa di ricordare «la drammatica condizione di impotenza politica a eleggere» il proprio successore in base alla quale i leader dei maggiori partiti bussarono alla sua porta per chiedergli la disponibilità a restare. Almeno per un altro po’, lo pregarono. Giusto il tempo di superare l’emergenza. Con l’impegno — che allora parve sul serio condiviso — di tenere a battesimo un governo di larghe intese e dall’orizzonte comunque limitato, l’altro sbocco «eccezionale» (ma per nulla borderline , costituzionalmente parlando) di allora.
Altro che democrazia sospesa, Parlamento commissariato ed esecutivo subornato dal Colle, come si recrimina da certi fronti, politici e non solo, per mettere in liquidazione le esperienze di Monti e Letta. Stavolta non serve azzardare retropensieri: è il presidente stesso a sgombrare le ombre agitate da quanti mirano a una delegittimazione generale per far saltare il tavolo. «Ciascuna istituzione», dice, ripetendo concetti elementari ma strumentalmente equivocati, «ha le sue, ben distinte responsabilità… le sorti del governo poggiano soltanto sulle sue forze, sono legate al rapporto di fiducia con la sua maggioranza». E, aggiunge con evidente fastidio verso chi polemizza con Palazzo Chigi (e, obliquamente con il Quirinale) sostenendo che si fa un totem della stabilità purchessia, «è perfino banale ricordare che la stabilità non è un valore se non si traduce in un’azione di governo adeguata».
Ecco i termini con cui il capo dello Stato ristabilisce la verità dei fatti. Ecco i termini del patto da onorare. Un memorandum, il suo, attraverso il quale, oltre a liberarsi di fuorvianti letture delle proprie intenzioni, tenta di imprimere una scossa a un sistema frammentato, confuso e in affanno. Questo è quel che gli interessa di più dopo che si è ristretto, pur restando autosufficiente, il perimetro delle larghe intese. L’esecutivo può quindi programmare un altro pezzo di strada contando sul suo scudo. Purché sia un percorso coerente e senza deviazioni, perché molte cose devono sembrargli allarmanti, in un contesto generale schiacciato da «mutamenti incalzanti della scena politica, ancora lontani da un chiaro assestamento e tali da presentare incognite non facilmente decifrabili». Ci sono leadership nuove, alla guida dei partiti che possono avere un ruolo determinante nella fase che si apre. Napolitano spera in loro senza voler disperare del tutto nel Berlusconi decaduto da senatore e, dopo l’addio alla maggioranza con cui si è autoescluso da questa fase eccezionale ma necessitata, pronto a diroccare ogni equilibrio della politica pur di rincorrere le urne in concorrenza con i 5 Stelle di Grillo. Il presidente gli chiede di non abbandonare il tavolo delle riforme, poiché «sarebbe dissennato buttar via il prezioso telaio propositivo» già imbastito in Commissione. Ma lo avverte ruvidamente di smetterla di evocare «colpi di Stato e oscuri disegni» ai quali non sarebbero state estranee «le più alte istituzioni di garanzia», Quirinale in primis. Sono «estremizzazioni che guastano la vita democratica», è la sua sentenza.
Marzio Breda
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