LA COABITAZIONE

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Il suo discorso all’Assemblea nazionale di Milano non ha il respiro né la visione di quello con il quale un altro “giovane” appena eletto come Tony Blair, il 2 ottobre del ’94, conquistò i consensi di tutti i delegati proponendogli lo slogan “New Britain, New Labour” e scioccandoli con la cancellazione definitiva della famosa Quarta Tesi dallo statuto del partito. Il sindaco di Firenze non ha ancora la stessa audacia nell’abbattere i vecchi totem e la stessa sagacia nel declinare i nuovi valori della sinistra italiana.

Nell’immaginario collettivo, la sua vera forza d’urto resta racchiusa nella formula magica della “rottamazione”, che per adesso investe molto più le persone e molto meno le idee, e riflette alla perfezione lo “Zeitgeist” di un’Italia nauseata dai bubboni dalla vecchia politica e ferita dai forconi dell’antipolitica.
Ma i messaggi lanciati dal neosegretario, per toni e contenuti, segnano comunque una cesura netta e irreversibile con il passato. E al tempo stesso indicano un percorso condiviso e condivisibile per il futuro. Da Gramsci ai Negrita: è un cambio di stagione traumatico, ma in fondo quasi fisiologico. La prova è nelle reazioni positive di una platea già composta da molte facce nuove, e nelle parole di elogio pronunciate da molti esponenti della vecchia nomenklatura (compreso persino quel Massimo D’Alema per il quale non ci sarà posto in lista alle europee della prossima primavera).
Confortato dalla vittoria schiacciante alle primarie, e arricchito da quel “deposito” finora purtroppo infruttifero di democrazia espresso dai quasi tre milioni di elettori che le hanno onorate, Renzi ha compiuto un apprezzabile sforzo per mettere a punto una piattaforma programmatica ancora in divenire, ma sufficiente per aprire una prospettiva unitaria per un partito ancora spaccato, e non troppo illusoria per un Paese tuttora paralizzato. I due piani, alla fine, coincidono. Quando parte all’attacco invocando un piano straordinario sul lavoro per dare «nuovi diritti a chi non ne ha», e poi una legge per le unioni civili e una riforma della Bossi-Fini per tendere una mano ai «nostri fratelli e alle nostre sorelle immigrate », Renzi parla chiaramente al cuore di una sinistra che fatica ancora a “digerirlo” come leader, e alla quale non bastano i pur apprezzabili “maalox” sommini-strati alla struttura attraverso l’offerta della presidenza a Cuperlo e della vicepresidenza alla Zampa. Ma si rivolge anche alla testa di un’opinione pubblica che ha sofferto per vent’anni l’egemonia culturale e il ricatto istituzionale del berlusconismo, e alla quale non bastano le purghe micidiali o le timide aspirine alternate in questi ultimi anni dalle due Grandi Coalizioni tricolore.
Ci sarà tempo per mettere a fuoco una vera “agenda di governo”, che ancora non si vede con chiarezza rimettendo insieme le proposte sparse di Renzi. Ma sul piano della “narrazione” politica, il tentativo di voltare pagina c’è, e quello si vede tutto. È un tentativo esageratamente ammiccante, come quando il segretario si spinge a citare i «ribelli» e Che Guevara (troppo facile). È un po’ erratico, come quando ripete «no all’Europa della tecnocrazia » (troppo banale). A tratti è quasi rabdomantico, come quando ribadisce «casa nostra è sulla frontiera, non nel museo delle cere» (troppo vago). Ma c’è. E tanto basta a sperare che il centrosinistra, e prima o poi anche l’Italia, abbiano almeno una chance per verificare se è davvero possibile «cambiare verso». Sul piano invece della riorganizzazione politica, Renzi pianta sul terreno due paletti profondi.
Il primo paletto riguarda la riscrittura delle regole elettorali e istituzionali. Il ragionamento del segretario non fa una piega. Dopo la sentenza della Consulta, non possiamo passare dai disastri recenti del Porcellum alle antiche rovine del proporzionale.
Dunque, insieme all’eliminazione del bicameralismo perfetto e alla riduzione del numero dei parlamentari, va fatta subito una nuova legge elettorale maggioritaria che ripristini la certezza del bipolarismo e la sicurezza della governabilità. E qui Renzi, bruciato sul tempo dal decreto approvato venerdì scorso, aggiunge e aggiorna la «sorpresina» che aveva annunciato per Beppe Grillo. Se il
conducator a 5Stelle accetta l’hashtag che il leader democratico gli risbatte in faccia, e firma l’impegno a votare subito la riforma elettorale, il Pd rinuncia subito al finanziamento pubblico, senza aspettare il 2017.
La mossa è furba, e nasce da una doppia esigenza. Da un lato quella di regolare una volta per tutte i rapporti con i grillini, smettendo finalmente di giocare di rimessa (com’era capitato a Bersani) e mettendo definitivamente «il Pd davanti», non più a rimorchio del carro pentastellato. Dall’altro lato quella di forzare i tempi su un nuovo sistema di voto, senza il quale lui stesso non può disporre dell’arma delle elezioni anticipate, che di qui al 2015 può evitargli un lento logoramento tra liti di corrente e compromessi dorotei. Ma la mossa è anche avventata, e lo dimostra una doppia evidenza. Da un lato il Pd non ha ancora una sua proposta definita di riforma elettorale (lo stesso Renzi l’aveva promessa entro l’8 dicembre, ma non l’ha ancora presentata). Dall’altro lato, soprattutto, un tema come il finanziamento pubblico dei partiti è oggi troppo importante e dirimente, per essere svilito a “merce di scambio” con Grillo. Se il Pd pensa di rinunciare ai 40 milioni annui di contributo dello Stato, perché ritiene che sia giusto e doveroso in tempi di recessione dell’economia e di delegittimazione della politica, allora lo fa e basta, senza pretendere contropartite da nessuno. Qui sta un eccesso di spregiudicatezza, che talvolta continua a tradire l’azione di Renzi. Un “vizio” manovriero che il segretario farebbe bene a controllare meglio.
Il secondo paletto, in questo momento ancora più significativo, riguarda la natura dei rapporti tra partito e governo, e cioè tra segretario e premier. Anche all’Assemblea nazionale Renzi e Letta hanno fatto il possibile per dimostrare una piena unità di vedute e di intenti. Ma non c’è dubbio: siamo ormai in una fase nuova e diversa della legislatura. Siamo a una forma spuria di “coabitazione” all’italiana, in cui il presidente del Consiglio e il leader del partito di maggioranza che lo sostiene sono obbligati alla collaborazione, ma condannati alla competizione. La vicenda del decreto sul finanziamento pubblico è solo il primo esempio: ce ne saranno altri. In questa delicata convivenza politico-istituzionale, Letta fa valere la forza del suo ruolo di capo dell’esecutivo, che ha in mano l’ordine del giorno di Palazzo Chigi e che dunque, se vuole, può fare e disfare, accelerare o frenare. Renzi fa pesare la spinta della sua funzione di leader del cambiamento, che in attesa di tornare al voto tenta di far fruttare una rendita di posizione “win-win”, come direbbero a Westminster. Se il governo fa, il merito è suo perché lo pungola. Se il governo non fa, lui è legittimato ad attaccarlo e in prospettiva anche a rompere, pretendendo le elezioni anticipate.
Questo “patto di coabitazione” dovrebbe durare più di un altro anno. Sarà tutt’altro che facile. E se è vero che la finestra elettorale per una crisi di governo e poi un voto a marzo si chiuderà di qui alla prima metà di gennaio, e altrettanto vero che di “spifferi” ne soffieranno tanti anche dopo. La partita tra il segretario e il premier, nonostante gli sforzi reciproci, difficilmente può finire con un pareggio che veda entrambi soddisfatti. E altrettanto difficilmente, per restare al confronto storico con le vicende del New Labour, tra i due si potrà immaginare un accordo come quello che raggiunsero Gordon Brown e Blair il 31 maggio 1994, nella famosa cena al ristorante Granita, ad Islington, quando il primo lasciò al secondo lo scettro del partito e la successiva premiership, ottenendo come contropartita la promessa del ministero del Tesoro. Nella stabilità, Letta può benissimo galleggiare sostenuto dal Quirinale e puntellato dall’establishment europeo. Nella palude, Renzi può solo affondare. E con lui, purtroppo, l’Italia intera.


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