“Hai camminato tanto, ora tocca a noi” festa sul prato per il saluto di Soweto
«Non sono riuscita a finire le scuole, ma quando hanno liberato Mandela sono corsa fuori con gli altri a cantare e a ballare ». Ci sono le grate alla finestra, porte di compensato con il lucchetto, la cucina, i letti, due tavoli di legno e la tv: appena compare l’immagine di Mandela, la nipote di otto anni si mette a baciare lo schermo. Smack. Sua mamma si chiama Nonhlanhla, ha 41 anni, è una venditrice ambulante di schedine telefoniche. «Non potevo credere che Madiba fosse morto, ho dovuto accendere la tv per rendermene conto, non ci fosse stato lui oggi non potrei avere la mia attività. Devo onorare chi ci ha tolto dall’apartheid».
Via in strada su una Toyota scassata, senza finestrino, rimpiazzato da un manifesto di Madiba attaccato con il nastro. Si va a Park Tokosa, dietro la chiesa cattolica Regina Mundi, base della protesta negli anni difficili. C’è un grande schermo, un carretto che vende cavoli, pomodori, cipolle, una signora che frigge le fat cakee i boerewor, salsicce di manzo e agnello. Madiba ha sempre rimpianto la
mxhaxha, zucca con il mais che gli preparava la madre. Sul prato Soweto si mette a fare picnic con sedie, ombrelli contro il sole, amici. Una scampagnata collettiva, attenta, ma in silenzio, niente applausi. I bambini giocano, i grandi seguono l’ultimo viaggio dell’uomo che chiamava la regina «my friend, Elizabeth ». Thulann ha 39 anni, fa il tassista, ha un figlio di sei anni: «Ci aspettavamo la sua morte, ma non eravamo pronti. Si è sacrificato per noi, è lui che da prigioniero ha costruito la nostra libertà». Nessuno dimentica la dignità con cui Mandela nel febbraio ’90 lasciò il penitenziario di Victor Verster in macchina. Prima dell’uscita pregò l’autista di fermarsi e scese. «Uscirai da qui solo in una bara», gli aveva detto 27 anni prima il direttore del carcere di Robben Island. E lui con saggia fierezza fece a piedi quei 50 metri che lo separavano dalla libertà.
Khtkhetine ha 54 anni, è infermiera a Soweto nell’ospedale di Baragwanath, ha due figlie: «Ho partecipato alla marcia nel ’76 quando a scuola ci volevano imporre l’afrikaans, so sulla mia pelle cosa hanno significato quei tempi, le nuove generazioni no. Madiba non poteva vivere per sempre, era ora di liberarlo ». Tata, nonno, il sorriso contagioso, i capelli grinzosi che sua figlia Zindzi si divertiva a toccargli. Anche i bambini del parco corrono a baciare la sua foto quando la mostrano sullo schermo. Primrose, 28 anni, era cameriera, ora fa lavoretti parttime, ha una bimba Lakisha di quattro anni: «Madiba ha avuto una vita intensa, ma oggi è la fine di qualcosa». Tata diceva: «Vorrei portarvi nelle mie tasche per dimostrarvi quanto vi voglio bene». Ma oggi è Soweto ad allargarsi la tasca, a nasconderlo dentro. Maya Angelou, poetessa americana, nel suo tributo a Mandela parla di una giornata su cui alla fine è calata l’ombra: «His day is done». “Free Mandela” era il grido che girava per il mondo forte come un tweet quando in tanti non sapevano nemmeno che faccia avesse e lui ci scherzava: «Molti credevano che “Free” fosse il mio nome». È questa libertà che la sua gente ora gli vuole regalare. Sentono, ma non piangono. Il vuoto è pieno: Madiba insegnava a non rassegnarsi. Si sentiva colpevole di aver dato così poco tempo alla sua famiglia e così tanto al mondo. Winnie, la ex moglie, si lamenta: «Non è mai stato nostro, l’abbiamo dovuto sempre dividere».
Qui a Soweto la gente si fa più vicina allo schermo quando la bara avvolta da pelli di leopardo sta per essere calata nella tomba, nel retro del giardino della sua prima casa (comprata) che lui aveva voluto esatta replica della sua ultima abitazione-prigione. «Così mi oriento più facilmente ». Fa niente se l’ultimo momento non si vede. Soweto non ne ha bisogno. Passa una ragazza sulla moto, con tacchi e abito di pelle. Passa un ragazzo con la Porsche. Si chiama Sipo, ha 27 anni, ha un’azienda. È la nuova Soweto, quella che ha 16 miliardari neri. «Senza Madiba, oggi non potrei avere questa macchina». Poi la macellaia, l’infermiera, il tassista, l’ambulante, il giovane capitalista si mettono a cantare. Quando il sole tramonta. «Lakutshon’ilanga». Hai camminato molto per tutti. Ora tocca a chi resta allungare il passo.
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