Il vizio dell’8 settembre
Il nuovo segretario del Pd gli ha assestato il colpo di grazia, domenica a Firenze («ai teorici dell’inciucio diciamo: v’è andata male») e in un baleno il mondo di ieri è apparso ingrigito, obsoleto.
È così anche se Renzi non sarà che schiuma delle cose. Già da tempo in Europa son fallite le strategie anticrisi che come fondamento hanno scelto la sospensione della democrazia e dell’idea stessa di conflitto, sociale o politico. Anziché spegnersi, la crisi s’è acuita. Perfino il Wall Street Journal, in nome dei mercati, ha scritto il 24 novembre che i toni sempre bassi, i compromessi tra oligarchi, la pacificazione come dogma, prefigurano la «stabilità dei cimiteri». Continueranno a prefigurarla se Renzi non oserà un’autentica resa dei conti con Letta, e si consumerà in trattative, rinvii presto sgualciti, fiducie concesse avaramente, ma pur sempre concesse.
Il suo tempo è brevissimo, perché enorme è la forza d’inerzia dei vecchi regimi, anche se incartapecoriti. Possiedono l’energia del corpo che non cessa di gorgogliare anche dopo morto, come nell’Illustre Estinto di Pirandello: sottosegretari deputati e curiosi s’affollano nella camera ardente, e nel silenzio quasi sacro della scena può accadere l’inatteso: «Un improvviso borboglìo lugubre, squacquerato, nel ventre del cadavere, che intronò e atterrì tutti gli astanti. Che era stato? — Digestio post mortem, — sospirò, dignitosamente in latino, uno di essi, ch’era medico, appena poté rimettersi un po’ di fiato in corpo».
Il che vuol dire: nel ventre d’Italia tutto è ancora possibile, anche il borboglìo squacquerato che inneggia alla stabilità degli inciuci, e questo per il semplice fatto che il Paese vi sta rannicchiato da anni. Dante avrebbe detto, con i suoi magnifici neologismi: s’è
inventrato nella stabilità oligarchica. Con linguaggio più moderno l’ultimo rapporto del Censis — presentato il 6 dicembre — usa metafore identiche. Narra un’Italia imbozzolata, senza «sale alchemico»: «sciapa, infelice », cerca riparo nella Reinfetazione.
Reinfetazione è quando ti rifai feto: torni nella pancia, il cordone ombelicale ti tiene al guinzaglio.
Finché non nasci, resti stabile tu e anche chi comanda: «Con annunci drammatici, decreti salvifici, complicate manovre, la classe dirigente si presenta come l’unica legittima titolare della gestione della crisi» (Censis). È il dispositivo, al tempo stesso disciplinatore e rasserenante, che il pacificatore Napolitano coltiva da anni. Nella reinfetazione, scrive De Rita nel suo 47° rapporto, tutti i soggetti politici, i rappresentanti, le forze sociali, vivono «in stato di sospensione nelle responsabilità del Presidente della Repubblica
». Vogliose, ma incapaci di «tornare a respirare».
Questo teorema avvizzisce d’un colpo: in realtà la reinfetazione «riduce la liberazione delle energie vitali. Implica il sottrarsi alle proprie responsabilità dei soggetti». Usa crisi e paure per salvaguardare il potere di poche, chiuse cerchie. Riduce e demonizza il conflitto, quando dovrebbe invece considerarlo sale della rinascita. Tradisce le speranze in Rodotà o Prodi. È probabile che gran parte degli elettori, votando Renzi e anche Civati (82%, insieme), più che un nuovo capopopolo abbia cercato precisamente questo: uscire dal ventre, chiudere l’era fetale, e fatale, cara a Napolitano. Riabilitare il conflitto, a cominciare da quello contro le larghe, strette, o larvate intese. Non sappiamo fino a che punto Renzi ne sia conscio. Se non lo è non gli basterà la veduta lunga consigliata da Fabrizio Barca. Entro un anno sarà sfinito.
Il rapporto del Censis non è stato il solo segno precursore. Non avremmo i sussulti odierni, senza la scossa di 5 Stelle. E anche la Corte costituzionale ci ha messo del suo, il 4 dicembre, abolendo un Porcellum carezzato per 8 anni dalla classe politica. È vero, nel gennaio 2012 proprio la Consulta bocciò il referendum col ritorno al Mattarellum chiesto da 1,2 milioni di cittadini. È innegabile, essa ci restituisce il grado zero della democrazia (la proporzionale). Ma mette i politici davanti alla verità e dice: volutamente avete preferito regole che hanno promosso i rappresentanti dei partiti anziché dei cittadini, allargando la faglia tra voi e loro, e questo lo dichiariamo illegittimo. Se non vi date da fare, avrete il proporzionale come nella Repubblica di Weimar. Una iattura? La questione è controversa, tra gli storici tedeschi: se Hitler vinse, sostengono molti, la colpa non fu solo del proporzionale.
Zagrebelsky ricorda giustamente che lo Stato continua, dopo la sentenza. Ma Stato non è sinonimo di governo. E il Parlamento attuale, pur non annullato, di fatto è «delegittimato dal punto di vista democratico» (Repubblica 8-12). Si è delegittimato lasciando che il gong, ogni volta, venisse suonato da fuori: da outsider come Grillo, i magistrati della Consulta, gli elettori dei referendum. Anche qui il Censis parla chiaro: la salvezza, anche economica, verrà dagli esterni. Dagli immigrati che si fanno imprenditori con più lena degli italiani, dalle donne che fondano aziende, persino dai giovani che fuggono all’estero e si riveleranno una risorsa. Tutti costoro, e tutti i movimenti cittadini di protesta, sono come un esercito straniero di liberazione: pronti ad approdare in Italia come le truppe anglo-americane in Sicilia e Calabria nel luglio e settembre ’43.
È uno sbarco generalizzato — Grillo ha dato il via, poi son venute la Consulta, le parole del Censis, le euforiche primarie — e per forza il popolo è «allo sbando», come l’8 settembre ’43 all’armistizio. Colpisce che l’espressione — Paese sbandato— appaia in tanti commenti di questi giorni. L’aveva usata Elena Aga Rossi, nel bel libro sulla fine della guerra (Una nazione allo sbando, 2003). Furono anni di viltà, doppiezze furbesche: così affini agli anni presenti. Il governo Badoglio ordinò la resa agli alleati, ma senza rompere l’inciucio col socio nazista. Il giorno dopo fuggì col Re consegnando ai tedeschi due terzi dell’Italia, Roma compresa.
Seguì una reazione disperata del Paese, caotica. I più tornarono a casa senza battersi, e però la patria non morì: il 9 settembre nacque il Comitato di liberazione, e furono tanti i militari che rifiutando la doppiezza combatterono Hitler. Tuttavia il caos poteva esser risparmiato, se la rottura con il fascismo fosse stata netta. Se non fosse perdurata l’abitudine a restare nel suo ventre, a reinfetarsi.
Ne nacquero film come Tutti a casa di Luigi Comencini, o ancor più Vita difficile di Dino Risi. Il protagonista di quest’ultimo — impersonato da Sordi — senza fine narra il nostro sperare e disperare, credere e sbandare. I suoi urli d’ira sulla litoranea di Viareggio, contro il Paese che ha tradito lui e la Resistenza, esplodono tali e quali in questi anni, questi giorni. Il voto a Renzi è l’ultimo della serie.
È una vittoria che molti (Renzi stesso, magari) vorrebbero usare a piacimento: per emarginare e silenziare le grida di cui è figlia. Troppo presto forse Enrico Letta ha detto: «Non è un voto contro di noi. È un argine contro il populismo e la deriva distruttiva, estremista» di Grillo, più che di Berlusconi. Il senso del voto è in mano a Renzi. Non mente quando dice: l’urlo dei Vday è altro dalle primarie. Ma nella sostanza è simile quel che muove ambedue: la rabbia, la sete di rigenerazione. Ignorarlo è rischioso, non solo per lui.
È rischioso anche per l’Europa, bisognosa di scosse simili. Non per scaricarla (lo Stato del tutto sovrano è imbroglio) ma per edificare, questo sì, una vera Comunità.
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