La generazione dei “nati liberi” “Basta parlare di Apartheid non abbiamo più paura dei bianchi”

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JOHANNESBURG — Seduta nel salotto della sua casa, alla periferia est di Johannesburg, a 45 minuti dalla città, Nokuthula Magubane, 18 anni, parla con affetto dell’afrikaans. Un atteggiamento che alle generazioni di sudafricani che l’hanno preceduta appare quasi inconcepibile. «L’afrikaans è una lingua bellissima e pacata», afferma.
Durante l’»partheid l’adozione ufficiale dell’afrikaans nelle scuole fu una delle scintille che innestarono le rivolte studentesche di Soweto del 1976.: centinaia di ragazzi, molti più giovani di Magubane, furono uccisi. Moltissimi altri preferirono abbandonare gli studi anziché essere istruiti in quella che consideravano la lingua dell’oppressore. «In fin dei conti però – afferma oggi Magubane – è solo una lingua».
Sentimenti analoghi sono comuni tra i membri della generazione di Magubane, noti come “nati liberi” perché venuti al mondo dopo la fine dell’Apartheid o subito prima, e troppo giovani per ricordarlo. Naturalmente questi ragazzi conoscono Nelson Mandela ma per loro è quasi impossibile immaginare come ci si potesse sentire nel vederlo emergere dalla prigionia nel 1990 e diventare presidente quattro anni più tardi.
I nati liberi sono una percentuale enorme della popolazione: il 40%, stando ai dati ufficiali. I loro numerosi detrattori, più anziani di loro, li considerano apatici, apolitici e inconsapevoli della lotta che ha garantito loro un’esistenza migliore. Dal canto loro, questi ragazzi, detti anche “generazione Mandela”, insistono nel dire che la loro determinazione a guardare al futuro e non al passato è il più grande tributo che si possa offrire all’ex presidente. «È vero: siamo stati oppressi dai bianchi. È vero: – dice Magubane – permetteteci però di perdonarci gli uni gli altri, andare oltre e contribuire pienamente al Sudafrica che vogliamo realizzare».
Secondo Akhumzi Jezile, un produttore televisivo di 24 anni, i “nati liberi” sono considerati apatici perché non reagiscono con la stessa emozione, né partecipano con la stessa assiduità della generazione di Soweto alle marce della Giornata della gioventù e a ricorrenze analoghe. «Non si tratta di non capire l’Apartheid: il fatto è che noi ci troviamo di fronte delle sfide diverse », spiega. «Credo che la sensazione che i “nati liberi” siano ignoranti sia dovuta al fatto che le persone delle generazioni precedenti
vedono che non reagiscono come loro. È normale: non c’eravamo. Ma lottiamo per ciò che ci sta a cuore».
Come esempio, Jezile cita le campagne di sensibilizzazione volute dai giovani per combattere le piaghe della tossicodipendenza,
della criminalità e dell’Hiv.
«Le generazioni che ci hanno preceduto lottavano per obiettivi diversi», afferma. «Non possiamo parlare sempre e solo di Apartheid».
Molti degli atteggiamenti dei “nati liberi” differiscono radicalmente da quelli degli anziani perché le loro esperienze sono drasticamente diverse. Stando al Barometro della Riconciliazione, che sonda ogni anno l’opinione pubblica, i giovani socializzano più facilmente con persone di altre razze, tendono a non avere molta fiducia nei leader politici e a non attribuire all’Apartheid la colpa della diseguaglianza economica e sociale del Sudafrica.
A dispetto dei moniti di Zwelinzima Vavi, segretario generale della potente Confederazione dei sindacati sudafricani, il quale sostiene che i giovani sono «una bomba pronta ad esplodere» — a causa dei tassi di disoccupazione e di povertà — i “nati liberi” rimangono, secondo il Barometro e altri sondaggi, decisamente ottimisti. Persino i giovani delle township più povere dimostrano un grande entusiasmo, anche se per molti di loro, da un punto di vista materiale, la vita non è molto cambiata dalla fine dell’Apartheid, mentre la disoccupazione è addirittura peggiorata.
Così, mentre i più anziani lamentano il fatto che i “nati liberi” non tengono conto del passato, alcuni giovani accusano i loro genitori di volerli “imprigionare”. «Quelli che presero parte alle lotte ci ricordano costantemente ciò che è accaduto. Ci fanno il lavaggio del cervello e instillano continuamente in noi la paura per quello che l’uomo bianco ha fatto, per tutto il dolore che è stato causato, per tutta la sofferenza che è stata inflitta alla loro generazione », ha scritto AkoLee, un blogger che 1994, quando Mandela fu eletto presidente, aveva sei anni.
E così le incomprensioni fra generazioni rimangono. HHP, un noto cantante di hip-hop, le ha riassunte bene in una canzone intitolata
Harambe: «Non sono un tipo politico, non so neanche immaginarmi come possa essere avere dieci poliziotti e i cani alla porta. Non conosco l’odore del gas, non posso neanche immaginare la sensazione di un proiettile di gomma nella schiera. Ma lo so che è grazie a voi che non parlo afrikaans oggi, che ho una possibilità: che mi sono emancipato ».
(Copyright la Repubblica New York Times Traduzione di Marzia Porta)


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