Vent’Anni dopo. Una Storia di Amore e Odio

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L’ ultimo suo giorno da parlamentare, lui ha voluto passarlo fuori dal Parlamento. Sul palco ad arringare la sua gente. Berlusconi ha vissuto vent’anni di vita parlamentare non nutrendo grande ammirazione per un’istituzione descritta come una macchina farraginosa di lungaggini, resa viscida dalle astuzie dei mandarini e dei burocrati padroni del regolamento e dell’agguato da corridoio. Ora che non ci sta più, però, si sente defraudato. È la fine di una storia di amore e di odio. Di amore per il Parlamento espressione della sovranità del «popolo». Di odio per il Parlamento che non sa comportarsi con la prontezza e la rapidità di un’assemblea di azionisti di una grande azienda in attivo.
Berlusconi esce dal Senato, inasprito e furioso, accusando neanche tanto velatamente Giorgio Napolitano di essere stato uno dei responsabili della sua estromissione. Eppure uno dei primi gesti del Berlusconi parlamentare, nel ’94, neopresidente del Consiglio di un governo formato dai partiti che avevano vinto avventurosamente, con la forza di un blitz, fu proprio un clamoroso gesto di rispetto verso Giorgio Napolitano. Ex presidente della Camera, l’ultimo della Prima Repubblica prima di lasciare lo scranno alla giovanissima leghista Irene Pivetti, Napolitano come capogruppo dell’allora Pds aveva fatto un discorso molto dialogante rispetto al nuovo governo. Il resto della sinistra ringhiava o lacrimava per l’avvento del Tiranno, del Venditore, dell’Usurpatore, del Nemico Antropologico, e invece Napolitano non disse di no alla possibilità di cooperare per l’attuazione delle «riforme costituzionali». Già da allora, vent’anni fa: la collaborazione per le «riforme costituzionali». Ma Berlusconi (il grande suggeritore era stato Giuliano Ferrara, allora ministro per i Rapporti con il Parlamento) scese dai banchi del governo, andò verso Napolitano e nello stupore generale, strinse vigorosamente la mano all’avversario (che solo per un soffio non fu indicato da Berlusconi, insieme a Mario Monti, come Commissario europeo, sostituito all’ultimo da Emma Bonino). Una promessa bipartisan che durò pochissimi giorni. La guerra civile fredda e permanente sarebbe nuovamente divampata di lì a poco, anche in Parlamento, con una virulenza inusitata.
Il Parlamento come croce e delizia del Silvio Berlusconi disavvezzo ai riti romani da lui efficacemente, e poi sempre più stucchevolmente, ribattezzati «il teatrino della politica». Fu proprio in quel teatrino che Berlusconi lanciò la sua invettiva contro il Bossi che stava apparecchiando la tavola del «ribaltone» assieme a Massimo D’Alema e Rocco Buttiglione, commensali di Gallipoli. Bossi aveva già attaccato la solfa del «Berluskaiser» e del «Berluskaz», Berlusconi, l’uomo del «mi consenta» cerimonioso e cortese, replicò in Aula sulla figura dalla «doppia e tripla» personalità dell’alleato che lo stava tradendo, malgrado la calda estate della canottiera in Sardegna. La fine del governo si era già consumata, ma Berlusconi volle «parlamentalizzarla», anche perché le telecamere erano accese sul «teatrino» allestito a Montecitorio. Sempre in Parlamento, stavolta nelle aule di una Commissione Bicamerale per le riforme istituzionali (tanto per cambiare), Berlusconi mise in mostra la sua resurrezione politica dopo la batosta elettorale del ’96 che aveva consegnato il Paese all’Ulivo di Prodi. Sembrava la formazione di un asse indistruttibile con D’Alema. Si favoleggiava di una creatura mostruosa che fosse l’assemblaggio dei pezzi peggiori dei due protagonisti: «Dalemoni». L’esperimento fallì, ma Berlusconi aveva cominciato a impratichirsi nelle manovre del Palazzo, nelle trappole parlamentari, nei colpi di scena in Aula.
Il pallottoliere parlamentare, per esempio, Berlusconi aveva cominciato a usarlo molto meglio dei suoi navigatissimi avversari, rotti a ogni esperienza di Palazzo, ma che nell’ottobre del 1998 sbagliarono clamorosamente i conti e permisero al centrodestra la conta all’ultimo voto per mettere in minoranza il governo di Romano Prodi. E fu sempre in Parlamento, con le due Camere riunite, che Forza Italia rientrò trionfalmente nel gioco politico, portando i suoi voti determinanti per l’elezione di Carlo Azeglio Ciampi alla presidenza della Repubblica. Da quel momento, tra discorsi di fiducia e manovre di corridoio Berlusconi diventò uno dei protagonisti assoluti del «teatrino della politica» domiciliato presso la Camera e il Senato. In fondo, ha accettato per ben due volte di piazzare i suoi delfini alla guida di Montecitorio per sterilizzarli e tenerli in standby, Casini nel 2001 e Fini nel 2008. A conti fatti, non si è rivelato un calcolo lungimirante. Ma il Parlamento era diventato oramai un campo tra gli altri. Una divisione dei ruoli in cui a Berlusconi veniva affidata la missione del governo, mentre, nella retorica berlusconiana, il Parlamento era presentato come la grande palude in cui l’attivo operare governativo correva sempre il rischio di impantanarsi nelle lentezze esasperanti del bicameralismo, nelle strettoie regolamentari, nelle pigrizie romane, nelle geometrie delle camarille e delle correnti. Fino a che lo stesso Berlusconi non è diventato il maestro delle manovre, un imitatore così solerte delle astuzie altrui da farsene l’interprete imbattibile.
Proprio lui, che aveva denunciato l’impronta del Quirinale di Scalfaro nelle acrobazie parlamentari di Lamberto Dini. Proprio lui, che aveva marchiato con parole di fuoco il «ribaltone» con cui una parte del centrodestra aveva dato ossigeno al governo di sinistra succeduto a Prodi, proprio lui nel biennio tra il 2006 e il 2008, dall’opposizione, mise a punto le pericolosissime tecniche parlamentari per acquisire singoli deputati e senatori dalla parte avversa. Partito come il grande nemico dei ribaltoni e del rispetto dei risultati elettorali, divenne il protettore dei deputati modello Scilipoti, pronti a ogni contorsione pur di salvaguardare un equilibrio politico favorevole (e conveniente). Le ultime apparizioni di Berlusconi in Parlamento, per la verità, denunciano un uomo stanco e provato. Un volto sorridente quando fu messa a segno la rielezione di Napolitano mentre il Pd sprofondava nello psicodramma dell’impotenza. Un volto gonfio e coperto da impenetrabili occhiali neri per via di una misteriosa e invalidante uveite nell’aula del Senato, circondato dai fedeli sempre più apprensivi. Poi la clamorosa giravolta del 2 ottobre. Poi ieri, assente nel giorno dell’umiliazione e della decadenza. Via dal Parlamento, per l’ultima volta.


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