Alla prova del nove

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 PIÙ doveri di ogni altro cittadino. Silvio Berlusconi, invece, rifiuta addirittura di sottomettersi alla legge. Respinge semplicemente le norme basilari di ogni Stato di diritto. E confonde la delega che gli elettori hanno affidato al suo partito con uno strumento da esercitare esclusivamente per conquistare un eccezionale salvacondotto.
Il capo dello Stato, che pure si è speso in questi mesi per ricondurre il Paese nell’alveo di una normalità democratica dopo la specialità vissuta nell’ultimo ventennio, non poteva che respingere le pretese avanzate dal leader di Forza Italia. Il Cavaliere sembra pretendere per se stesso una sorta di extraterritorialità.
Agita il suo peso elettorale, la sua carriera politica e persino il suo successo imprenditoriale come se costituissero una via preferenziale all’immunità. Non riesce a cogliere i limiti che la politica e le istituzioni pongono ai desideri personali. Trascina nel baratro della irresponsabilità quel minimo di cultura della legalità sopravvissuta a questi venti anni di totale destrutturazione del sistema normativo e etico del Paese. Invoca insomma una sorta di Stato d’eccezione — così lo chiamerebbe il filosofo tedesco Carl Schmitt — da applicare solo a se stesso con l’obiettivo di sospendere l’ordinamento giuridico: necessitas non habet legem.
È in sostanza il replicarsi all’infinito della richiesta di norme ad personam.
Ma quando a tutto questo viene associata la minaccia di manifestazioni di piazza, di contestazioni radicali, allora davvero si avvicina pericolosamente il limite dell’eversione. Ma a queste condizioni, in questo clima, nessun presidente della Repubblica può concedere la grazia. Men che meno “motu proprio”.
Napolitano in una dichiarazione del 13 agosto scorso aveva prospettato una possibilità. Ma ad alcune condizioni: che ci fosse ad esempio la richiesta, magari non diretta, ma di un congiunto. Soprattutto aveva chiarito che qualsiasi atto di clemenza non avrebbe potuto mettere in discussione «la sostanza e la legittimità della sentenza passata in giudicato ». «Ogni gesto di rispetto dei doveri da osservare in uno Stato di diritto, ogni realistica presa d’atto di esigenze più che mature di distensione e di rinnovamento nei rapporti politici — aveva avvertito — sarà importante per superare l’attuale difficile momento». Ma questi paletti sono stati sistematicamente sradicati. Berlusconi contesta proprio l’essenza della sentenza. Dimostrando che il suo interesse primario non è solo la grazia. Ma quel concetto piuttosto astratto di “agibilità politica”. Non solo vuole essere al di sopra della legge, ma che sia messo in condizione di ricandidarsi alle prossime elezioni. Vorrebbe tornare ad essere l’ago della bilancia della politica italiana. Perché solo così è sicuro di poter tutelare al meglio le sue esigenze: giudiziarie e imprenditoriali. Eppure nelle sue pretese c’è qualcosa che lo rende inattuale. Il Cavaliere — forse per la prima volta da quando è sceso in politica — non appare calato nella realtà dei fatti. Ad agosto scorso, in un incontro riservato, persino il suo vero plenipotenziario, Gianni Letta, si era fatto scappare un giudizio definitivo: «Silvio, è finita». E oggi che deve fare i conti anche con una scissione che ha rotto il nucleo del suo movimento, non riesce a prendere atto che le condizioni politiche sono mutate.Alfano ha respinto la proposta di scendere in piazza mercoledì prossimo al fianco degli “ex amici”. Non è solo una scelta formale. È qualcosa che rompe l’unità del centrodestra nei termini che abbiamo visto dal 1994 alla scorsa settimana. Il leader forzista non è più determinante: in piazza e in Parlamento.
Questo governo eccezionale ma non d’eccezione, non deve più la sua sopravvivenza alle decisioni o ai diktat lanciati da Via del Plebiscito. Enrico Letta rivendica questa circostanza osservando che il suo esecutivo «ha cambiato per sempre la politica italiana archiviando per davvero il berlusconismo ». Quel che accadrà mercoledì, in occasione del voto sulla decadenza, sarà probabilmente una delle prove capaci di marcare il reale superamento del ventennio berlusconiano. Ma non sarà l’unica. Il vicepremier, il suo ex delfino, dovrà infatti dimostrare non solo di reggere all’urto degli attacchi dei falchi e di proteggere l’azione del governo. Per una effettiva svolta dovrà con i fatti recidere ogni legame con il cuore politico del berlusconismo, quel mix di populismo e demagogia che ha paralizzato l’Italia dal 1994. Dovrà aiutare il centrodestra a mostrarsi con una faccia europea e conservatrice, e sostanzialmente dire: non saremo mai più così. Non basterà fare il tour delle capitali europee per accreditarsi con le cancellerie dell’Ue per conquistare «da vero moderato » quell’immenso bacino elettorale egemonizzato da Berlusconi e adesso contendibile. Se non lo farà, se si ripresenterà con il volto del “diversamente berlusconiano”, allora ricadrà inevitabilmente nel vortice che in questi anni ha avviluppato ogni tentativo di distinguersi dall’originale.
Ma anche il Pd è ora chiamato alla prova. Quella di ritrovarsi in campo libero senza il nemico storico. Evitando di inseguirlo sul suo terreno. L’ultimatum scandito anche ieri da Matteo Renzi alla Convenzione democratica, è con ogni probabilità il primo passaggio di questo esercizio. Se il Pd sarà in grado di indicare la strada al governo, suggerendo priorità e finalmente imponendo dei temi, allora ci sarà la possibilità di superare questo ventennio. Questa è la sfida del nuovo segretario ma anche di Letta. Che è stato severamente condizionato dalla presenza di Berlusconi nella sua maggioranza. E anche la sua azione dovrà liberarsi di quel residuo di berlusconismo che ancora aleggia. Se ci riuscirà, allora il Paese avrà cambiato pagina. Altrimenti per la prova del nove bisognerà attendere le elezioni.


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