Grazia, l’alt di Napolitano al Cavaliere
ROMA – Un «omicidio politico», addirittura un «colpo di Stato», il voto di Palazzo Madama sulla decadenza di Berlusconi? Una chiamata alla «piazza» fondata proprio su queste parole d’ordine per contrastare quel passaggio ormai fatale? Una «vergogna» l’applicazione della pena inflitta con una sentenza, che è «un’ignominia» in sé, dalla Cassazione? «Un’umiliazione ridicola e inaccettabile» la pretesa che il condannato debba chiedere la grazia anziché vedersela attribuita motu proprio dal Quirinale?
Giorgio Napolitano ha atteso 24 ore prima di replicare alla sfida istituzionale del Cavaliere, studiata per anticipare con uno strappo rumorosissimo l’addio di Forza Italia dalla maggioranza di governo. Ha voluto verificare le reazioni dei partiti, il presidente. Poi, ha fatto conoscere la sua, di reazione. Durissima. Nella quale definisce «di estrema gravità», perché «privi di ogni misura nei contenuti e nei toni», i «giudizi e propositi» espressi dall’ex premier. E gela l’ipotesi di un provvedimento unilaterale di clemenza (pronunciata con la foga intimidatoria di un diktat), spiegando che «non si sono create via via le condizioni» per un suo «eventuale intervento» sulla base di quanto prevedono «la Costituzione, le leggi e i precedenti». Vale a dire che, giusto per fare un paio di esempi, Berlusconi non ha deliberatamente accettato il verdetto della Suprema corte, né ha mostrato rispetto per la magistratura. Due delle precondizioni — assieme alla domanda dell’interessato — indicate dal comunicato quirinalizio del 13 agosto per rendere praticabile l’esame per la concessione della grazia. Anzi: «Nulla è risultato più lontano del discorso tenuto sabato dal senatore Berlusconi dalle indicazioni e dagli intenti che in quella dichiarazione erano stati formulati» e ai quali Napolitano rammenta d’essersi sempre tenuto fermo, «con coerenza».
Ecco l’esito dell’ultimo capitolo del tormentone della grazia (cominciato, anche se pochi lo ricordano, già prima del verdetto di condanna definitiva) degenerato ormai in una specie di incubo. Per il Quirinale e per mezz’Italia. Una rincorsa di attacchi e minacce per la quale il capo dello Stato sente il bisogno di lanciare un «pacato appello a non dar luogo a comportamenti di protesta che fuoriescano dai limiti del rispetto delle istituzioni e di una normale, doverosa legalità». Allarme eccessivo? Timori infondati? Sospetti malposti? Non troppo, dal punto di vista di Napolitano, e non solo dal suo. Infatti, convocare una manifestazione non contro una presunta ingiustizia, contestabile, ma contro un «colpo di Stato», rischia di sfociare in esiti imprevedibili. Se le cose stessero davvero in questo modo, in che democrazia saremmo? Non a caso, se si considerano gli slogan incendiari echeggiati alla convention della neonata Forza Italia (per molti, Partito democratico in testa, sconfinati nell’eversione vera e propria) non è marginale il pericolo che in questo modo si produca un effetto moltiplicatore delle tensioni che già da tempo percorrono il Paese.
Uno scontro da evitare, insomma. Un richiamo alla responsabilità, anche emotiva. È così che va letta la nota informale diramata dall’ufficio stampa del Colle, in cui sono riassunte le preoccupazioni del presidente della Repubblica. Così, non certo alla stregua di una messa in mora preventiva alla libertà di manifestare. Nessuna mordacchia, quindi, anche se le truppe berlusconiane interpretano la nota del Quirinale esattamente in questo modo, con l’umore di chi si sente criminalizzato. Da Gasparri, che si dice «sbigottito», a Brunetta, che qualifica Napolitano come un «uomo di parte», è tutto un fiorire di repliche affilate. Renata Polverini individua una «singolare sintonia tra il capo dello Stato e Angelino Alfano», Fitto ricorda gli articoli 17 e 21 della Costituzione sulla «libertà d’espressione», Bondi riparla di «colpo di Stato» e di «grave ingiustizia» non sanata. Dal centrosinistra, all’opposto, si levano scudi di difesa del presidente, di «condivisione e sostegno» (Colaninno) per le sue «parole sacrosante» (Speranza) e un «comportamento ineccepibile» (Finocchiaro).
Marzio Breda
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