Napolitano ai giudici: inutile la mia deposizione

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PALERMO — Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano «è disponibile a testimoniare» davanti ai giudici che stanno celebrando il processo per la trattativa Stato-mafia, ma chiede che «si valuti ulteriormente l’utilità del reale contributo che tale testimonianza potrebbe dare, tenuto conto delle limitate conoscenze sui fatti di cui al capitolato di prova ». Il capo dello Stato ha scritto alla Corte d’assise di Palermo, come annunciato nei giorni scorsi dal Quirinale, per ribadire che non conosce alcun retroscena sulla lettera che gli inviò il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, poco prima di morire. È la lettera che interessa i pm di Palermo, venne scritta nel giugno dell’anno scorso: dopo le polemiche per le telefonate al Quirinale di Nicola Mancino, intercettato nell’ambito dell’inchiesta trattativa, D’Ambrosio ribadiva la sua correttezza, ma esprimeva un timore sugli anni in cui la trattativa si sarebbe consumata. Il timore «di essere stato considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi, fra il 1989 e il 1993». In quegli anni, D’Ambrosio fu all’Alto commissariato antimafia e al ministero della Giustizia.
Nella lista testi, la Procura spiega di voler chiedere a Napolitano ulteriori notizie su quello sfogo. Ma Napolitano precisa di non essere a conoscenza di particolari ulteriori sulle parole del consigliere. E chiede alla corte di rivalutare la citazione. Così, il collegio presieduto da Alfredo Montalto ha annunciato che oggi la lettera verrà messa a disposizione di pm e avvocati. «Perché possano pronunciarsi sulla sua acquisizione ed utilizzabilità», spiega il giudice. Dunque, presto, si potrebbe riaprire la discussione sulla testimonianza del capo dello Stato. Anche se al momento, i pm non sembrano intenzionati a rinunciare all’audizione. Potrebbe essere dunque l’Avvocatura dello Stato o uno dei legali degli imputati a sollevare il caso. Così la Corte dovrebbe pronunciare una nuova ordinanza, come auspicato da Napolitano, che nella lettera ricorda la possibilità offerta dal codice di procedura penale, di revocare l’acquisizione di prove ritenute «superflue».
Ieri, all’aula bunker, sono arrivati don Luigi Ciotti e il procuratore Francesco Messineo per esprimere solidarietà ai pm della trattativa, minacciati in carcere da Riina. E lui, il capo di Cosa nostra, non si è perso una battuta dell’udienza: collegato da Milano, ha ascoltato in silenzio la deposizione del pentito Nino Giuffrè. L’ex padrino della “cupola” di Cosa nostra ha spiegato che nel dicembre 1991 fu decisa la «resa dei conti contro i politici inaffidabili e i magistrati ostili». Nella lista degli obiettivi c’erano «Lima, i Salvo, Mannino, Vizzini e Andò». Dopo l’arresto di Riina, nel gennaio 1993, fu l’altro capo di Cosa nostra, Bernardo Provenzano, a segnare la linea. «Non mi parlava più di omicidi — racconta Giuffrè — mi disse che Vito Ciancimino era in missione, presso alcuni ambienti dei carabinieri». Così, Giuffrè ebbe il sospetto che Riina era stato «venduto». Di sicuro, Provenzano inaugurò una nuova stagione di contatti. «Provenzano mi rassicurò, siamo in buone mani — dice il pentito — Era un riferimento a Marcello Dell’Utri e a Forza Italia».


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