Suad, in pantaloni contro i qaedisti

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 BEIRUT — I siriani in fila per chiedere notizie dei parenti scomparsi, le passano accanto senza fermarsi. Qualcuno alza il pollice in segno di solidarietà, un gesto rapido, nascosto. Non si avvicinano, non le parlano. Così i miliziani hanno ordinato: meglio stare alla larga da quella donna che si presenta davanti alla caserma con un cartello. Ogni giorno diverso, ogni giorno con uno slogan per infastidire le loro certezze fondamentaliste: «La nostra rivoluzione è partita da persone oneste ed è stata rubata dai ladri», «Liberate tutti i detenuti», «I musulmani che versa-no il sangue di altri musulmani sono peccatori».
E fossero solo le parole. Gli estremisti con le facce coperte dal passamontagna nero non riescono a sopportare che Suad indossi i pantaloni: «Se proprio devi venire a protestare, almeno indossa qualcosa di decente», l’hanno rimproverata cercando di mandarla via.
Suad Nofal ha quarant’anni, una laurea in pedagogia, prima della rivolta contro il regime insegnava ai ragazzini nelle scuole locali. Si ricorda la prima grande manifestazione, a metà marzo di un anno fa, quando gli abitanti di Raqqa sono scesi in strada per piangere e ribellarsi, dopo la morte di Ali Babinsky, ucciso dai soldati di Ba-shar Assad: «Lo abbiamo seppellito e il funerale è diventato un corteo. Hanno sparato ancora sulla folla, diciassette ammazzati. Da allora non abbiamo smesso», racconta alla rivista online Now Lebanon.
Suad ha continuato la sua lotta per la libertà anche quando a calpestarla sono diventati i persecutori dell’Esercito islamico dell’Iraq e del Levante, l’emanazione di Al Qaeda che ormai spadroneggia in questa città della Siria orientale. «Ho cominciato mesi fa a presentarmi davanti al loro quartier generale — spiega in un video pubblicato su Facebook — e sto lì in piedi per un’ora, un’ora e mezza. Dipende da quanto sono stanca».
All’inizio chiede la liberazione di suo cognato, portato via dalle squadracce dell’Isil. Va avanti quando rapiscono anche Ibrahim al Ghazi, colpevole di aver organizzato una campagna perché la bandiera della rivoluzione siriana restasse l’unica a sventolare sulle case di Raqqa. Non smette quando resta sola e i suoi compagni firmano una dichiarazione per sospendere le proteste contro la presenza degli jihadisti. Non cede quando padre Paolo Dall’Oglio scompare alla fine di luglio.
«Era mio ospite, veniva a casa alla fine del giorno di digiuno per Ramadan», ricorda a Now Lebanon . «Denunciava le tattiche dell’Esercito islamico: gli omicidi politici e la segretezza, le stesse usate del regime. È andato a parlare con i miliziani e non è mai più uscito da quel palazzo». Il gesuita italiano ha compiuto ieri 59 anni, era rientrato in Siria dal confine con la Turchia durante l’estate e aveva raggiunto le aree controllate dalle brigate ribelli. Nel giugno del 2012 il governo di Damasco lo aveva costretto a lasciare il Paese dopo 30 anni per le sue critiche alla repressione della rivolta.
La ferocia degli estremisti legati ad Al Qaeda, la volontà di imporre a tutti le norme religiose e la prevaricazione politica (un editto a Raqqa impone di esporre solo i vessilli neri dell’Isil) sta spingendo gli attivisti moderati a lasciare queste zone. «Si fanno chiamare sceicchi — commenta Suad —, è un titolo che può essere meritato solo dopo aver studiato per lunghi anni il Corano, invece sono ragazzi. Quelli che se la pigliano di più con me sono gli stranieri, arrivati qui a combattere da altre nazioni».
Racconta che adesso si fa vedere con i cartelli solo quando non ci sono fondamentalisti in giro. L’hanno già intimidita con i kalashnikov ed è considerata un’apostata, accusa che dà a chi la incontri il diritto di ucciderla.
Non dorme mai nello stesso appartamento, è diventata una fuggiasca nella sua città ma non vuole andarsene né rinunciare. «Indosso questi pantaloni da trent’anni, in casa e fuori: è il mio modo di vestire che li fa veramente infuriare. Il peccato non è una donna che porta i pantaloni, sono le loro maschere nere, simbolo della sopraffazione, a essere contro l’islam».
Davide Frattini


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