Piccole intese ma forse più forti
Ma in parallelo si sono esauriti anche gli alibi. In teoria, il governo delle «larghe intese» si ritrova appoggiato da uno «spezzatino» che lo indebolisce: la scissione del Pdl di Silvio Berlusconi e quella di Scelta civica di Mario Monti riguardano due forze della maggioranza di Enrico Letta. E il Pd va verso il congresso di dicembre e l’incoronazione di Matteo Renzi segretario, circondato da un alone oscuro sul futuro di Palazzo Chigi: al punto che i pessimisti associano alla frantumazione del centrodestra tensioni crescenti nel Pd.
Eppure, le macerie della Seconda Repubblica possono seppellire il governo, o rilanciarlo. Ieri sembra nata quella «nuova maggioranza politica» che aveva fatto le sue prove generali il 2 ottobre scorso, e che Berlusconi aveva esorcizzato appoggiandola. Adesso ha un profilo più chiaro, del quale il Cavaliere sarà una parte o meno a seconda se il Senato voterà o meno la sua decadenza da parlamentare: il 27 novembre o quando sarà. Ma all’opposizione la nuova Forza Italia si ritroverebbe con una Lega, sua alleata dal 1994, oggi ridotta a due tronconi che aspettano solo di separarsi; con il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo gonfio di voti di protesta e segnato dall’oltranzismo sterile della sua strategia. Soprattutto, Forza Italia affronterebbe la massa di chi non va più a votare, sottovalutando che si tratta di elettori in attesa di una nuova offerta, e non di operazioni nostalgiche ipotecate dall’estremismo.
Per questo, le «larghe intese», benché infragilite numericamente, esprimono un potenziale perfino superiore al passato. Il problema è che se non traducono questa occasione in atti di governo, i partiti della coalizione non potranno più darne la colpa a Berlusconi, o alla sinistra. Per quanto vivano una parentesi eccezionale sia in termini di alleanze che di durata, Pd, «nuovo centrodestra», come si definiscono i seguaci del vicepremier Angelino Alfano, e i due gruppi che fanno capo a Monti e a Pier Ferdinando Casini, hanno una sola strada: non traccheggiare rassegnandosi all’idea che la parentesi si chiuderà molto presto, ma «leggerla» come un’occasione per trasformare il sistema. Le opposizioni di destra e grillina sono sicure che non ci riusciranno, e così i «falchi» berlusconiani.
Confidano tutti nell’ascesa impaziente di Renzi al vertice del Pd per sfondare con una spallata collettiva il portone di Palazzo Chigi e far rotolare l’Italia verso il voto anticipato. Anche se significherebbe risucchiare l’Italia verso il passato, perché si riproporrebbe lo stesso bipolarismo da porcellum elettorale che ha prodotto un Parlamento frammentato e la paralisi da cui sono nate le «larghe intese». Senza contare i contraccolpi sul piano internazionale e i costi economici, non solo d’immagine, di un’Italia che torna alle urne dopo appena un anno di legislatura. È probabile che esagerino la propria forza e le intenzioni e i margini di manovra di Renzi. E sottovalutino gli effetti della scissione del Pdl.
Quella rottura rafforza l’ipotesi di un governo che accompagna la transizione dei partiti, e insieme la provoca, ritagliandosi un ruolo il più possibile di garanzia e di tutela; e che convince i propri alleati della convenienza a stare insieme, per il bene del Paese e per il loro, almeno per un altro anno. Quando Alfano fa risalire la rottura a una visione «rassegnata» e a un impulso irresponsabile degli oltranzisti ad andare alle urne, scommette sulla stabilità. E rilanciando sulla riforma del sistema elettorale e delle istituzioni, proietta le «larghe intese» fino al 2015. L’aspetto più insidioso, per la nuova-vecchia Forza Italia, è il rispetto col quale il vicepremier ha parlato di Berlu sconi, e la difesa che ne ha fatto, annunciando che il suo gruppo voterà contro la sua decadenza da senatore.
Mettere a forza ad Alfano i panni del «traditore» non sarà facile . Sta indossando quelli di chi apre una competizione elettorale nel centrodestra. Nel nome e nel solco di Berlusconi, anche se è determinato, anzi giura di essere stato costretto ad archiviarlo.
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