Se Obama fa arrabbiare sia gli israeliani che gli arabi

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La notizia ha reso furiosi i sauditi, al punto che, di solito così prudenti, hanno rifiutato d’impeto l’ambito posto di membro di turno del Consiglio di sicurezza. Non volevano partecipare alla massima istituzione internazionale dove Cina e Russia difendono Assad e dove gli Stati Uniti si piegano in sostanza alla loro volontà. Si aspettavano l’intervento punitivo. Non erano i soli. Si sono sentiti traditi dai loro alleati di sempre.
I sauditi devono agli americani un’assidua assistenza militare, un prezioso contributo tecnologico all’industria del petrolio, e anzitutto una grande tolleranza per la sistematica violazione dei diritti dell’uomo (in particolare della donna) nel regno più bigotto dell’Islam. In cambio i sovrani del petrolio non si sono risparmiati nel manifestare solidarietà ai grandi protettori. Dopo l’attentato dell’11 settembre hanno dato più di seicentocinquanta miliardi di dollari agli Stati Uniti di Bush jr. È vero che tra i terroristi prevalevano i sauditi e bisognava farsi perdonare per quei sudditi sfuggiti di mano. Nella frantumata crisi mediorientale, alimentata da tanti conflitti politici, etnici e religiosi, prevale ormai lo scontro tra sunniti e sciiti, le due grandi correnti millenarie dell’Islam.

Equalsiasi potenza occidentale si addentri nella regione viene coinvolta nell’antica tenzone, che si è risvegliata e non è soltanto teologica. Gli Stati Uniti cercano di sfuggire a quel coinvolgimento, ma l’impresa è ardua. Se la mancata punizione a Damasco, capitale del fronte sciita, è apparsa alle potenze sunnite un tradimento, la mano tesa di Barack Obama a Hassan Rouhani, neo presidente dell’Iran, cuore e principale bastione del mondo sciita, è stata presa come un affronto.
Un affronto che ha saldato una coalizione oggettivamente già esistente e che adesso cova un forte risentimento nei confronti degli americani. È un’intesa destinata a restare ufficiosa. Senza protocolli. Può essere definita un insieme di convergenze parallele. Un insieme di entità inconciliabili che conducono a un identico obiettivo. Un ossimoro. Un’alleanza tra avversari poiché unisce Arabia Saudita, Israele, Emirati ed Egitto. E tra Ryad e Gerusalemme non ci sono e non ci sono mai state relazioni diplomatiche. La questione palestinese li divide. Ma è una divisione in questa fase trascurata, lasciata nell’ombra dalla comune avversione per l’Iran. Un nemico che né Gerusalemme né Ryad vogliono dotato di un’arma nucleare. E verso il quale gli Stati Uniti di Obama manifestano una certa indulgenza. Infatti trattano la questione atomica dopo avere risparmiato Assad, stretto alleato di Teheran.
La diffidenza verso gli Stati Uniti d’Obama (che il segretario di Stato Kerry cerca con fatica di dissipare visitando le capitali della regione) è alimentata dagli interrogativi sorti con le “primavere arabe”. Se il presidente americano ha abbandonato Hosni Mubarak alla sua sorte dopo l’insurrezione di piazza Tahrir e non ha dato all’opposizione siriana, alla Coalizione nazionale, i mezzi per resistere all’esercito di Assad, perché domani non dovrebbe avere un identico comportamento rinunciatario nei confronti delle monarchie del Golfo in difficoltà? I più pessimisti, i conservatori, si chiedono se Obama non abbia cambiato campo, e si stia schierando con Bashar al Assad, con Hassan Rouhani e con Vladimir Putin. Sono rivelatori gli sperticati elogi indirizzati alla Francia che si è opposta a un accordo affrettato con l’Iran alla conferenza di Ginevra dedicata alla questione nucleare. Parigi approfitta, a buon prezzo, delle difficoltà americane. Ma ne approfitta anche Israele, pur lasciando intatti i legami con gli Stati Uniti chiunque sia l’inquilino della Casa Bianca. I diplomatici israeliani sentono che la loro intransigenza nei confronti delle centrali atomiche iraniane è condivisa dai sauditi e dagli Emirati. Con i quali si è appunto creata l’insolita intesa che cambia, almeno in parte, gli equilibri mediorientali.
Quel che crea non poche perplessità, per quanto riguarda la Siria, è la sempre più consistente presenza nell’opposizione a Assad di formazioni jihadiste (legate o ispirate da Al Qaeda). È un argomento usato dagli americani per spiegare la loro rinuncia a colpire direttamente Damasco, con un’azione punitiva che favorirebbe gli estremisti islamici. Il discorso non lascia indifferenti i sauditi e gli israeliani. I primi hanno aiutato alla nascita i jihadisti, e quindi obiettivamente anche Al Qaeda, quando si trattò di combattere in Afghanistan gli occupanti sovietici, ma oggi si oppongono a quelle correnti terroristiche musulmane. I secondi, gli israeliani, non considerano con tranquillità l’idea di avere alle porte, in Siria, un potere influenzato dai jihadisti.
La strana, estesa alleanza non perdona certo agli Stati Uniti di avere ridotto gli aiuti all’Egitto, dopo l’esautorazione di Mohammed Morsi, eletto presidente al suffragio universale diretto, e il massacro o l’arresto dei capi e dei militanti della Confraternita dei Fratelli musulmani. Il regno dei Saud preferisce l’esercito del generale Sissi, l’uomo forte del Cairo, ai Fratelli musulmani adesso messi fuori legge, ma in precedenza sostenuti dagli americani quando furono eletti democraticamente. Per compensare i militari egiziani colpiti dalla parziale sanzione americana, l’Arabia Saudita ha aperto la sua ben fornita borsa e ha offerto loro miliardi di dollari. Il Cairo a sua volta si è rivolto a Mosca per avere le armi (soprattutto gli aerei) per il momento negate dagli americani. Putin sarà presto ospite dell’Egitto. Per la Russia alleata di Nasser negli anni Sessanta e poi cacciata da Sadat (quando era ancora sovietica) negli anni Settanta, potrebbe essere un grande ritorno in Medio Oriente.
L’intero mosaico politico mediorientale si sta ricomponendo. È in movimento. È una sabbia mobile. Difficile immaginare quel che sarà. È con un altro sguardo che deve essere studiato. La posizione degli Stati Uniti non è più quella di un tempo. Per molte capitali non sono più la superpotenza affidabile. La fallita spedizione in Iraq (del 2003) ha ridimensionato il loro prestigio militare e politico. La mancata rappresaglia siriana e il dialogo che appare conciliante con l’Iran hanno fatto nascere una diffidenza profonda. Ma se Obama si fosse impegnato direttamente contro Damasco si sarebbe trovato impigliato in un altro conflitto mediorientale. E sarebbe stata la peggiore delle situazioni. Adesso corre i rischi di una tentata imparzialità, che è al tempo stesso un segno dell’intelligente consapevolezza dei limiti di una superpotenza in un mondo sempre più multipolare.


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