«Donne arabe sconfitte dalle primavere»

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L’Egitto post-rivoluzionario non è un Paese per donne. Oggi, la nazione simbolo della Primavera araba si rivela la peggiore per i diritti femminili nel mondo arabo, peggiore dell’Arabia Saudita dove le donne sono trattate come eterne minorenni ed è proibito loro anche guidare l’auto, della Siria, dove sono usate come «armi di guerra» con rapimenti e stupri sia da parte del regime che di alcuni gruppi ribelli, e dello Yemen, dove un quarto sono sposate prima dei 15 anni (tutti Paesi che comunque seguono di poco).
Al secondo posto, dopo l’Egitto, c’è l’Iraq, « più pericoloso per le donne oggi che ai tempi di Saddam Hussein». Invece, le Isole Comore, piccolo arcipelago nell’Oceano Indiano, è il migliore di tutti i membri della Lega Araba: benché non garantisca la libertà di espressione politica, non discrimina le donne in caso di divorzio, in politica (il 20% dei ministri) né sul posto di lavoro (il 35%), «grazie anche all’eredità francese nel sistema legale».
E’ la situazione fotografata da un nuovo sondaggio condotto dalla «Fondazione Thomson Reuters» interpellando centinaia di esperti nei 21 membri della Lega Araba più la Siria (sospesa dall’organizzazione nel 2011). «Colpisce — spiega al Corriere Monique Villa, l’amministratrice delegata della Fondazione — che i Paesi delle Primavere arabe siano tra gli ultimi». Dalle stesse donne che hanno lottato al fianco degli uomini per il cambiamento sociale, ci si aspetta che tornino tra le mura domestiche. In politica, per esempio, 987 egiziane si sono candidate alle elezioni del 2012, e 9 sono state elette; in Siria, prima dell’inizio delle rivolte il 13% dei giudici erano donne, una percentuale subito ridottasi e di incerto futuro. Il 99% delle egiziane afferma di aver subito molestie in strada, un fenomeno «endemico, socialmente accettato e mai punito». E’ un dato simile a quello che si registra in Yemen, ed è in crescita perfino in Tunisia. «La Tunisia era un paese baluardo dei diritti delle donne nella regione, dove l’aborto è stato legalizzato nel 1965 prima che in Italia — nota Monique Villa ?— e ci sorprende ritrovarla oggi più vicina all’Algeria che alle isole Comore».
Il sondaggio usa sei indicatori: «misura» la violenza contro le donne, i diritti riproduttivi e gli spazi in famiglia, società, economia e politica. Corrispondono ad altrettanti aspetti della «Convenzione Onu sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne», di cui peraltro sono firmatari 19 dei Paesi esaminati: il problema è che molti rifiutano gli articoli relativi alla vita familiare, perché visti in conflitto con la sharia, la legge islamica. Così restano in vigore leggi ostili alle donne, come in Egitto, dove una musulmana che sposa un uomo di altra fede rischia di essere incriminata per apostasia e di vedere i propri figli messi sotto tutela di un uomo musulmano, o in Iraq dove c’è uno sconto di pena per gli omicidi di donne «disonorate».
Di buone notizie ce ne sono poche nel rapporto, «ma è una fotografia, e le rivoluzioni hanno alti e bassi e richiedono tempo: speriamo che nei prossimi anni la situazione cambi». Emerge anche che «la stabilità e la ricchezza favoriscono i diritti delle donne». Le monarchie ricche del Golfo come Kuwait, Oman, Qatar sono ai primi posti, dopo le Comore. E il caso dell’Iraq fa riflettere sulle conseguenze di imprese come l’esportazione della democrazia. «In Iraq, dove sotto Saddam le donne lavoravano — continua la CEO di Thomson Reuters — l’invasione americana non ha migliorato la loro vita: ha lasciato 1,6 milioni di vedove e un tasso femminile di occupazione al 14,5%». Non vuol dire che nelle dittature le donne se la passino meglio che in democrazia, ma che i fattori che determinano i loro diritti sono tanti. «Il Libano, ad esempio, dà alle donne il diritto di voto, ma se trent’anni fa era la Svizzera del Medio Oriente oggi è reso instabile dalla guerra e dal radicalismo». I pezzi del mosaico sono tanti: per il momento compongono un’immagine cupa del Medio Oriente al femminile.
Viviana Mazza


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