Ai Negozi non servono aiuti ma meno vincoli per i giovani

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L’immagine dei negozi chiusi è comunque l’istantanea della Grande Crisi che influenza maggiormente le nostre retine, la propensione dei giovani ad aprire botteghe è più elevata di quanto potessimo immaginare e i grandi gruppi stranieri continuano a voler investire nel nostro Paese. Così capita che Apple non riesca da due anni a trovar casa a Milano e che, sempre a pochi chilometri dalla città del Duomo, parta la rivolta contro i nuovi centri commerciali di Rescaldina o di Arese. Si afferma così proprio a partire dalla vita quotidiana una grande vitalità del mondo del commercio e di riflesso una sua straordinaria modernità. Non siamo dunque all’anno zero ma stiamo attraversando una fase di grandi e profondi cambiamenti nella quale si tratta di spendersi dal lato delle soluzioni piuttosto che indulgere alla nostalgia di un tempo passato. Cominciamo dunque a considerare il commercio per quello che obiettivamente è: una rete decisiva per lo sviluppo degli stessi settori a monte. Quando parliamo di politica industriale dovremmo evitare di separare anche solo concettualmente la manifattura dal servizio perché nel momento in cui le nostre medio-grandi aziende per crescere hanno bisogno di una distribuzione efficiente e quando riescono a salire di taglia a loro volta “si fanno rete”. Basterebbe osservare l’evoluzione che nel tempo ha avuto uno degli esempi più citati del made in Italy, la Luxottica, per rendersene conto. Tutto ciò dovremmo averlo a mente quando valutiamo i vantaggi e gli svantaggi per una città o per il sistema dei dettaglianti dell’apertura o meno di un nuovo importante punto vendita, dovremmo avere la capacità di scendere nel merito di ogni singolo progetto. L’altro elemento che induce all’ottimismo sui destini di quello che gli stranieri chiamano retail è l’abbondanza della materia prima, gli aspiranti commercianti. Ai giovani il commercio piace ed è comunque la formula di ingresso nel mercato del lavoro che tantissimi di loro scelgono in piena coscienza attratti magari dagli aspetti relazionali. E’ vero che molti altri ragazzi la seguono come extrema ratio di fronte al rischio di rimanere in perenne esclusione ma questa grande disponibilità va comunque valutata come una ricchezza e non sprecata. Ci dobbiamo chiedere cosa facciamo perché i nuovi commercianti non siano costretti ad arrendersi troppo presto, non debbano abbassare le saracinesche dopo pochi mesi. E’ chiaro che in nessun settore il ricambio avviene immediatamente sotto il segno dell’equivalenza delle competenze, le nuove generazioni però recano con sé una cifra cosmopolita e una confidenza con le tecnologie che i loro predecessori non avevano. Dunque le amministrazioni più che puntare le loro carte su legislazioni vincolistiche dovrebbero accompagnare l’azione dei nuovi venuti e trovare le strade per facilitarla. Una di queste è sicuramente la formula dei distretti del commercio. In Lombardia si vanno facendo delle buone pratiche in materia, i modelli sono i più vari e alcuni di essi sono stati recentemente premiati dalla scuola di management del Politecnico di Milano. Forse il più interessante dei modelli è quello che porta, nelle città più grandi, alla specializzazione merceologica delle zone o delle vie. Un’esperienza che ci è capitato di vedere tante volte all’estero e che ha quasi sempre effetti virtuosi. Introduce elementi di concorrenza e di spinta al miglioramento del servizio, crea una sorta di attrattiva turistica, permette di individuare orari di apertura ad hoc, facilita la creazione di imprese focalizzate su singole nicchie e, soprattutto, realizza le condizioni per un facile avviamento dei negozi gestiti da giovani alla prima prova. Inserite in un distretto le reclute hanno immediatamente accesso al mercato e possono mettersi alla prova senza quel lungo purgatorio che quasi sempre finisce per prosciugare le risorse investite.


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