TESSERE Quello strumento democratico usato nelle lotte per il potere
Attraversa e devasta l’unico partito che ancora si richiama ad una tradizione di democrazia organizzata.
In realtà sembra scomparire proprio il partito, strumento collettivo di trasformazione, e rimane la tessera, frammento amorfo di un conflitto fra poteri. Forse è in discussione la sopravvivenza stessa di una forza riformatrice: e tutto questo avviene nel momento di maggior discredito della politica. Occorre dunque fare un grande sforzo per sollevarsi dalle singole miserie e cercare di capire come si è arrivati a questa liquefazione di speranze, nel sommarsi di mutazioni e guasti diversi.
La guerra delle iscrizioni fasulle non era nella tradizione del “partito solido” comunista, ha osservato Claudio Petruccioli: anche perché, ha aggiunto, quel che le sezioni dicevano non contava. Lo scenario di questi giorni evoca semmai la Dc o il Psi ma il male del Pd non è un retaggio degli ex democristiani o di qualche ex socialista (anche se qualcuno ricompare). Non è un residuo della prima Repubblica, è un frutto delle nebbie della seconda: quindi è molto più grave, segnala una dissoluzione senza regole e senza quasi anticorpi.
Colpisce per più versi la diversità dalla storia del vecchio Pci. Certo, terremoti epocali avevano via via squassato fondamenta che apparivano solide (e talora discutibili), e alcuni architravi portanti iniziavano a cedere già negli anni settanta. Negli anni ottanta poi, nei trionfi del neoliberismo, l’innovazione sembrò separarsi dal progressismo politico, il vento della modernizzazione e quello del progresso civile iniziarono a non soffiare più insieme. Era messo in discussione, insomma, il coniugarsi stesso della sinistra alla trasformazione mentre la sua “diversità” iniziava ad appartenere al passato. E non era solo italiana la crisi dei partiti basati sulla militanza e l’appartenenza. Era urgente mettere in campo nuove modalità e culture dell’agire collettivo ma l’afasia fu massima: di qui l’occasione mancata nel 1989, quando la svolta di Occhetto fu gestita con i vecchi metodi ed apparati. Difficile stupirsi se di lì a poco, nel crollo della prima Repubblica, la sinistra fu incapace di rinnovare radicalmente il proprio modo di essere. Ed apparve quindi a molti come l’ultima incarnazione del vecchio sistema politico: poco convincente anche quando l’illusorio “nuovo” del centrodestra rivelò la sua miseria. Prese avvio allora una deriva che alla lunga ha travolto anche i tentativi di invertire la tendenza e i soffi rigeneratori che pur vi sono stati.
La sfida era iniziata bene, nella stagione aperta dell’elezione diretta dei sindaci: sembrò possibile una nuova forza riformatrice, “partecipata” e plurale. Le vittorie del centrosinistra alle amministrative del 1993 furono certo favorite dal crollo dei partiti di governo ma ebbero conferma nel 1997, nonostante le dure misure adottate di necessità dal governo dell’Ulivo guidato da Prodi. E nonostante il fuoco amico che iniziava a colpire la positiva esperienza dei sindaci: o dei cacicchi, come qualcuno ebbe a dire. In quello stesso 1997 Massimo D’Alema attaccava duramente anche il tentativo di fare dell’Ulivo una realtà nuova: «noi non siamo la società civile contro i partiti. Noi siamo i partiti. Non possiamo raccontarci queste storie tardosessantottesche ». Sotto questo manto trovò in realtà riparo e legittimazione l’incubazione di un “partito di micronotabili”, per dirla con Mauro Calise (Fuorigioco, Laterza 2013), e al tempo stesso la storia della sinistra diventò, per dirla ora con Gianni Cuperlo, un succedersi di “traslochi”, dal Pds ai Ds e poi al Pd (Basta zercar, Fazi, 2009). Traslochi in cui si smarrivano precedenti identità mentre nuove culture non nascevano e si fossilizzavano invece gruppi dirigenti impegnati in tutto tranne che nel costruire un progetto comune. Al prender corpo di un partito di micronotabili contribuiva a livello locale – perversa eterogenesi dei fini – il permanere della preferenza unica: nel deperire degli slanci ideali il primo competitore del candidato venne via via a collocarsi nel suo stesso campo, non in quello avverso. Alla crescente evanescenza del progetto e all’incapacità di riforma radicale della politica si accompagnò insomma la solidità crescente di micropotentati periferici nutri-
ti di vecchie logiche. Si consolidò un “arcipelago di notabili di apparato” (ancora Calise): segmenti di nomenclatura capaci di condizionare in qualche modo “dal basso” – nel senso che si è detto – il modo di essere del partito, dai poteri locali alle vicende interne. Sotto la superficie si affermarono così logiche in qualche modo autonome: pronte ad emergere nei momenti di profonda crisi della leadership, come è puntualmente avvenuto. Non è stato un processo lineare. Nel 2005 la tendenza nazionale si inverte per un attimo grazie alle primarie che consacrano Romano Prodi candidato premier, ma a favorire antichi arroccamenti identitari contribuisce potentemente poi il Porcellum. Le liste bloccate ribadiscono il predominio dei vertici mentre l’abolizione dell’“uninominale di collegio” indebolisce l’appartenenza comune e rafforza il protagonismo dei singoli partiti. O meglio, di quel coacervo di partiti e di micropartiti che nel 2006 dà vita all’Unione. E il centrosinistra passa “dal governo al suicidio”, secondo l’impietosa testimonianza di Rodolfo Brancoli (Fine corsa, Garzanti 2009). Di qui alla situazione attuale il passo è breve, e le derive prevalgono anche sulla effimera stagione veltroniana: inutile soffermarsi poi sui suicidi successivi (a partire dagli sconosciuti 101 che affossano la candidatura di Prodi). O sui sussulti di vitalità che pur riaffiorano, costantemente frustrati.
Un disastro annunciato, eppure un così clamoroso deperire del partito come progetto a vantaggio della tessera (artificiale) non era prevedibile, in un panorama in cui gli iscritti reali si sono dimezzati in un anno. Che senso ha oggi chiedersi chi ha vinto nei congressi locali del Pd? E cosa accadrà se i loro risultati saranno in contrasto con la probabile elezione a segretario di Matteo Renzi (che già dovrà fare i conti con l’orientamento a lui ostile della maggioranza degli attuali gruppi parlamentari)? Domande non secondarie, ma è ancor più necessario chiedersi quanto siano profonde le deformazioni simboleggiate dalla non evangelica moltiplicazione delle tessere. Quanto essa abbia ulteriormente devastato l’immagine della politica anche in quei cittadini che ancora, con fatica, mantenevano una speranza.
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