La nuova cortina di ferro
MOSCA. Tatiana Polinina, contadina settantenne, arrivata come ogni mattina con la sua bicicletta dipinta di bianco, ha subito pensato a uno scherzo. Poi si è guardata attorno e si è spaventata: «Non sarà mica scoppiata la guerra?». I ragazzi in tuta mimetica che si stavano dando da fare con martelli e tenaglie si sono fatti una bella risata, le hanno detto gentilmente di tornarsene a casa e hanno ripreso il loro lavoro: stendere una lunga barriera di filo spinato proprio in mezzo ai sentieri di campagna che la signora Tatiana percorre da trent’anni in tutte le stagioni. Proprio da lì, nella regione di Lugansk, in Ucraina meridionale, passa un confine che nessuno ha mai preso sul serio, tra due nazioni da sempre sorelle. Ieri la Russia ha cominciato a tracciarlo fisicamente, imponendo blocchi e check point. Il primo passo per un piccolo, nuovo muro d’Europa che recingerà oltre duemila chilometri di frontiera tra la Russia di Putin e i paesi in qualche modo vicini alla Ue.
Un programma non annunciato né tantomeno spiegato dalle autorità russe anche se le successive dichiarazioni del ministero degli Esteri, Sergej Lavrov, non lasciano spazio a equivoci.
«L’Ucraina ha deciso di firmare il 28 novembre un patto di associazione con l’Unione europea? E allora i nostri rapporti cambieranno anche da un punto di vista tecnico» ha detto Lavrov. Ritorsione? Ne ha tutta l’aria ma serve soprattutto da esempio per gli altri protagonisti di una lunga guerra invisibile tra gli interessi di Mosca decisa a ristabilire la sua area di influenza sul maggior numero possibile di paesi dell’ex Unione Sovietica e quelli dell’Unione europea e della Nato che puntano a conquistare mercati, e magari basi militari, in territori un tempo impensabili. Dalla Moldavia all’Armenia, passando per il ricchissimo Azerbaijan, fino alla tormentata Georgia, è tutto un Risiko senza carri armati fatto di minacce e lusinghe, di tradimenti e di spregiudicati giochi al rialzo che fondono insieme politica ed economia.
Sarà difficile da spiegare alla signora Tatiana che ieri se n’è tornata in lacrime al suo villaggio di Dmitrovniki e ha cominciato a interrogare amici e parenti: «Ma in fondo al sentiero c’è la Russia? Dove sta mia figlia con i miei nipoti, è Russia o Ucraina? Voi lo sapete? E le uova e il latte che vendevo al mercato, adesso dove le vendo?». Le hanno spiegato che i due Paesi restano quasi amici. Che le basterà andare a cercare il varco di frontiera con un giro di 40 chilometri. Non potrà forse portare merci ma il transito è garantito. Almeno fino a quando non saranno approvate le proposte che sempre Lavrov ha lanciato ieri sera «sulla necessità di rendere obbligatorio il passaporto per il passaggio dei cittadini».
Tutta presa dal cercare qualcuno che la accompagni in macchina dalla figlia, Tatiana non se ne cura, ma il filo spinato che comincia a scorrere tra Ucraina e Russia crea già i suoi grossi problemi. Problemi personali. Perché la regione di Lugansk è russofona, popolata a lungo dai cosacchi dello zar, e abitata da famiglie che non si sono mai curate di distinguere la loro nazionalità spargendosi sul territorio solo seguendo la pista dei terreni fertili e delle opportunità di lavoro. Ma anche problemi economici perché lo scambio di piccoli commerci tra le popolazioni contadine è già di fatto bloccato. E andrà peggio per i trasporti delle merci industriali a cominciare da quelli della vicina fabbrica di locomotive Luhanskteplovoz, antico orgoglio dell’Urss, che ha quasi tutti clienti russi e che adesso, sempre secondo Lavrov, «dovrà sottostare a tariffe doganali maggiorate per paesi che hanno fatto la scelta di non aderire alle nostre proposte».
Per provare a capirci qualcosa, bisogna tornare alla disgregazione dell’Unione Sovietica nel 1991 e alla nascita di quel guscio vuoto che si chiama Comunità degli Stati Indipendenti tra 11 delle 15 repubbliche di un tempo.
Non riuscendo a mettere d’accordo tutti sulla realizzazione di un mercato comune Putin ha creato un organismo a parte, un’unione doganale con le economie più promettenti. Per il momento insieme alla Russia vi aderiscono la Bielorussia del dittatore Lukashenko e il Kazakhstan dell’ex presidente sovietico Nazarbaev. Per allargare sempre più la rete e per arginare l’espansione della Ue che intanto si è “presa” gli ex Paesi comunisti del Patto di Varsavia e le tre repubbliche sovietiche del Baltico (Estonia, Lituania e Lettonia), Putin ha corteggiato soprattutto l’Ucraina. Paese gemello, che si considera la prima Russia nata a Kiev nell’882 e che è sempre rimasta la più legata alla Russia. È stata una lunga partita. Che sembrava persa nel 2004 dopo la Rivoluzione arancione e la svolta democratica filo occidentale. E che sembrò invece vinta a mani basse nel 2-010, con l’economia ucraina messa in crisi dai tagli del gasrusso e con la vittoria elettorale dell’attuale presidente Janukovic dichiaratamente amico della Russia e persecutore della nemica comune YiuliaTymoshenko rinchiusa in carcere senza prove serie.
Ma in guerra, anche se solocommerciale, gli amici possono cambiare idea. Per tre anniYanukovich ha giocato sul filodel rasoio ascoltando le proposte dell’uno e dell’altro fronte.
Poi, in estate ha deciso: l’Ucraina firmerà l’associazione alla Ue, primo passo versol’adesione. Rifiuta cortesemente l’unione doganale offerta da Mosca e se ne va dall’altra parte del mondo.
La reazione di Mosca ricalca ilvecchio stile di una volta. Subitoscatta la “Guerra del Cioccolato” che ha bloccato l’ingresso inRussia dei cioccolatini “Rochen”, vanto dell’industria dolciaria ucraina e amatissimi dairussi. Proseguita bloccando allafrontiera tutti i prodotti ucrainiper non meglio precisati controlli di qualità che hanno fattoperdere a Kiev due miliardi didollari in un mese. E la rappresaglia si è estesa anche agli alleatidei “traditori”. La Lituania, readi aver sponsorizzato l’Ucrainae di ospitare, in quanto presidente di turno Ue, la firma dell’accordo di novembre, sta subendo da tre settimane la “Guerra del Formaggio”, con il bloccodi tutti i suoi prodotti caseari destinati alle tavole russe.
Strategie usate a profusionein questi anni. Qualcuno cedecome l’Armenia che ai primisentori di una “Guerra delBrandy”
che produce in grandi quantità ha deciso di aderire entro l’anno all’unione doganaledi Putin. Altri meno. La Georgiasubì la “Guerra dell’Acqua minerale” bandita prima che lesanzioni contro il governo filoamericano di Saakashvili portassero al conflitto armato vero eproprio. Adesso che a Tblisi c’èun governo amico di Mosca, l’acqua minerale e il vino georgiano sono tornati nei supermercati e molti lo vedono comesegnale di accordi futuri.
E la mappa europea dell’exUrss continua a cambiare colori. La povera Moldova continuaa spingere per l’Europa ma è terrorizzata da una “Guerra del Vino” che la stroncherebbe. Il ricco Azerbaijan sembra inveceperduto in nome di un amiciziacon la Ue che stranamente nondenuncia le clamorose violazioni dei diritti umani compiutedall’eterno presidente Alijev.
Mosse disinvolte e, a volte unpo’ ciniche, che potrebbero ancora cambiare le sorti della partita. Perfino sull’Ucraina ilCremlino ha ancora qualche residua speranza di capovolgere lapartita. Potrebbe, dicono, giocarsi la carta del gas, bloccandoforniture che metterebbero inginocchio il Paese. Yanukovichperò appare spavaldo. Dice chel’Europa potrebbe offrigli il gas aprezzi ugualmente accettabili esi basa, forse, su accordi non conosciuti. Inoltre si prepara a liberare la Tymoshenko per farcontenta la Ue e risponde senzabatter ciglio alla mossa russa disegnare il confine: «Collaboreremo anche noi. È giusto chiudere le frontiere ». Intanto, nelle campagne intorno a Dmitrovniki, Tatiana Polinina cercaqualcuno che la porti al di là delfilo spinato.
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