Berlino e il nemico americano
Della sua cultura, tacciata di superficialità, così come della sua tendenza a esaltare il successo economico e la ricchezza. Nella prima come nella seconda guerra mondiale i due Paesi si erano attestati su due fronti inconciliabilmente opposti. I nazisti demonizzavano gli Usa, definiti roccaforte della plutocrazia a guida giudaica. Perciò l’aiuto americano alla Germania del dopoguerra, moralmente screditata e in macerie, non era tutt’altro che scontato: non il piano Morgenthau, concepito per il ritorno a una società agricola, ma il piano Marshall, con in più una serie di programmi di rieducazione, scambi tra scolaresche e studenti universitari ecc. Una politica che inizialmente colse i tedeschi di sorpresa, ma ben presto li conquistò; e insegnò loro che non sempre la legge del più forte ha l’ultima parola. Quando poi, nel 1948, Berlino Ovest fu tenuta in vita grazie al ponte aereo che costò la vita a molti piloti americani, la simpatia dei tedeschi per gli Usa non conobbe più limiti. Gli ammiratori dell’«american way of life» erano ormai in maggioranza.
Ma tutto questo è acqua passata. Gradualmente i rapporti tra i due Paesi si andarono deteriorando. Se ancora nel 1963 John F. Kennedy venne accolto con grande entusiasmo nella Rft, e in particolare a Berlino, i suoi successori – e in particolare Ronald Reagan e George W. Bush – dovettero essere protetti dalla rabbia dei manifestanti. Certo, in gran parte le contestazioni si rivolgevano contro la guerra in Vietnam. Resta però il fatto che una volta sopito l’entusiasmo del primo dopoguerra, era riemersa l’antica diffidenza, lo scetticismo nei confronti degli americani. Come se i discendenti non avessero mai perdonato quei loro antenati che a suo tempo scelsero l’emigrazione, abbandonando il Vecchio continente. Negli ultimi decenni il legame transatlantico, che forse non fu mai vera amicizia, si è notevolmente allentato. E a ripristinarlo non è bastata neppure la fiducia dimostrata dal presidente George Bush, che dopo il 1989 si è adoperato con tutte le sue forze per sostenere e promuovere la riunificazione tedesca.
Oggi molti tedeschi hanno degli Usa un’idea prevalentemente negativa: se prima erano i «gendarmi del mondo», oggi li vedono come una nazione imperialista, prepotente nel perseguire i propri interessi senza alcun riguardo per i diritti degli stati minori. Si tratta indubbiamente di una visione deformata. Ma al momento si ha l’impressione che gli Stati Uniti colgano ogni occasione per conformarsi il più possibile e questo giudizio e avvalorare le accuse dei critici. Dopo i discutibili successi in Iraq e in Afganistan, hanno deposto il loro ruolo di pompieri del mondo. Voltate le spalle all’Europa, guardano ormai verso il Pacifico. Come ha dimostrato e dimostra tuttora il caso Nsa, per Washington gli interessi nazionali hanno priorità assoluta su tutto il resto.
Ormai si fa fatica a parlare di rapporti rispettosi e cordiali tra gli Usa con gli Stati alleati: la Germania ne ha fatto l’esperienza nel modo più duro e brutale. Se le notizie in proposito sono vere, è stato addirittura intercettato il cellulare di Angela Merkel: cosa che la cancelliera, nel suo ben noto stile sobrio e laconico, ha definito «totalmente inaccettabile». Eppure, sembra che si tratti di un dato di fatto; e l’amministrazione americana non si è sbilanciata più di tanto per smentirlo in maniera credibile. Ovviamente non è così che si migliorano i rapporti tra Usa e Germania. Si rischia anzi di dare spazio al sospetto, assai pericoloso in democrazia, che per la politica americana valga ciò che si dice della scienza e della tecnologia: se una cosa è fattibile, nulla e nessuno potrà impedire che un giorno si finisca per farla.
Ma chi ha questa intuizione, o conoscenza, dovrebbe stare bene attento a ciò che dice. Quando Edward Snowden lanciò le sue accuse contro la Nsa, Angela Merkel – che normalmente è cautela personificata – si mostrò tutt’altro che prudente. L’estate scorsa, in occasione della conferenza stampa federale, si azzardò a dire che «in terra tedesca valgono le leggi tedesche». Chi la conosce bene avrà notato la sua lieve esitazione prima di pronunciare queste parole. In un’altra occasione, nel corso di un’intervista, si è espressa in maniera ambigua: «Per quanto ne so – ha detto – non
sono stata intercettata». Per cercare di completare questa frase ellittica e sommaria si potrebbe anche dire: «Io non ne sono informata, ma la cosa è senz’altro possibile ».
Le recenti rivelazioni mostrano con chiarezza lampante come a fronte di tecnologie che scavalcano agevolmente i confini nazionali, la sovranità degli Stati tenda a ridursi sempre più. A questo punto sarebbe piuttosto il caso di dire: non sempre, e non necessariamente, in terra tedesca le leggi che valgono sono quelle tedesche. Negli Stati europei non siamo più del tutto padroni in casa nostra.
Dovremmo però evitare di cadere nell’ipocrisia. Nell’affaire Nsa, la sobrietà della reazione di Angela Merkel sta a dimostrare che i servizi segreti e i governi europei erano perfettamente al corrente della portata delle intercettazioni in atto. E tutto induce a credere che almeno alcuni dei servizi segreti europei cooperino con la Nsa attraverso scambi reciproci di informazioni. Se la reazione tedesca è apparsa molto contenuta, è anche perché sappiamo bene che chi sta in una casa di vetro non dovrebbe fare a sassate. Nella vicenda della Nsa, le critiche contro gli Stati Uniti rischiano facilmente di apparire bigotte. Chi condanna quei metodi lo fa non per ragioni morali, ma perché non è all’altezza della tecnologia Usa. Lo ha detto molto chiaramente il sociologo francese Alain Touraine nella sua intervista a Repubblica: «La Francia e altri governi europei hanno programmi di sorveglianza elettronica che probabilmente violano la privacy. Tuttavia noi lo facciamo su scala minore, forse perché abbiamo mezzi meno potenti».
Cosa accadrà ora che Angela Merkel ha definito «totalmente inaccettabile» l’intercettazione del suo cellulare? Purtroppo, poco o niente. Negli Usa ne prenderanno atto, per poi passare ad altro. Il caso Nsa dimostra che nel complesso gioco dei rapporti con gli Usa, un’Europa priva di istituzioni comuni efficienti ha un peso del tutto insufficiente. L’accorta Angela Merkel lo ha detto fin dall’estate scorsa: nel campo della sicurezza dei dati l’Europa ha bisogno di un grande sforzo comune. Ma come spesso avviene, nei tre mesi trascorsi da allora nulla è cambiato, o quasi. Ecco il dilemma europeo: come conglomerato di stati nazionali l’Europa conta pochissimo. D’altra parte, è praticamente impossibile immaginare la Ue come Stato centralizzato, data la molteplicità delle sue culture, sia sul piano economico e giuridico che nello stile di vita.
L’autore è direttore di Die Welt Traduzione di Elisabetta Horvat
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