La peste americana

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«If you don’t like gay marriage, don’t get gay married». Nel 2011, questa colossale scritta occupava tutta la facciata abbandonata e senza finestre di un vecchio edificio di quindici piani nella parte sud-ovest di Manhattan. Benché l’iscrizione fosse nuova di zecca, l’inchiostro, i caratteri e la collocazione su un vecchio muro di mattoni davano l’impressione che fosse lì da sempre. I cittadini che passeggiavano sulla High Line – la nuova promenade realizzata sul tracciato di un’antica ferrovia merci sopraelevata -, se la trovavano di fronte come una sorta di undicesimo comandamento: la forza della tolleranza in mezzo ai mattoni arcigni del Novecento era sicuramente il miglior slogan della campagna per la legalizzazione dei matrimoni omosessuali e seguiva quello, diventato famoso, di tre decenni prima: «Se sei contro l’aborto, non abortire».
Nel giugno 2011, il governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo, aveva promulgato la legge che istituiva le nozze gay. Uomo politico dell’ala liberal del Partito democratico, di fede cattolica, figlio del famoso Mario Cuomo che a sua volta era figlio di un contadino emigrato dalla provincia di Salerno, Andrew ne aveva fatto un punto d’onore, avendolo promesso in campagna elettorale. E ora, l’antica città che ha costruito i grattacieli più alti delle chiese, la capitale dell’Impero, la metropoli ferita dal terrorismo e accusata da Bin Laden di peccare troppo, si lasciava alle spalle la Bibbia, la morale pubblica e i sempre possibili anatemi divini. (…) Nel 2012, nel pieno della campagna elettorale per una difficile rielezione, il presidente Barack Obama si dichiara favorevole a che il matrimonio omosessuale diventi una legge federale. (…). Negli stessi mesi, l’esercito, la Marina e l’aviazione americana accettano di essere comandati ai loro più alti gradi anche da generali omosessuali e stabiliscono che la diversità sessuale non può essere d’ostacolo alla carriera militare. Una istantanea, diventata immediatamente famosa, mostra un bacio appassionato tra due donne in divisa, alti ufficiali della Marina, in una cerimonia pubblica. (…) Nessuno la citava, ma era stata la peste di trent’anni prima, a cambiare quel paesaggio morale. Era stata una storia spaventosa, ma con un finale inaspettato. La vera sorpresa alla fine del XX secolo.
Andrew Moss, professore emerito di Epidemiologia all’Uc San Francisco, è andato in pensione nel 2007. Uno dei suoi due figli, medico, si occupa di Aids. La sua compagna, Naomi, è dirigente nell’ambito di un colossale programma del governo americano per combattere l’Aids in Africa. «Si tratta», mi dice Andrew, «di organizzare, come prima tappa, la circoncisione di mezzo milione di africani. La tremenda diffusione dell’Aids in Africa è sicuramente dovuta alla promiscuità sessuale ed è ormai provato che il virus se la spassa molto bene proprio tra glande e prepuzio. Tagliare la pelle e liberare il glande ha un notevole effetto di riduzione del contagio. È un grande programma sanitario, si chiama Gap, e la cosa più curiosa è che l’ha finanziato George W. Bush. Almeno una cosa buona l’ha fatta».
Andrew Moss abita in Liberty Street, ai margini del quartiere Castro, che fu il teatro della peste moderna. «Venni ad abitare qui nel 1974», mi racconta. «Allora ero un giovane professore universitario, inglese di nascita e di cittadinanza. Ero un professore di Epidemiologia, ma dividevo il mio tempo tra le ricerche sul tumore al polmone e la militanza politica, in particolare andavo a volantinare al porto auspicando un sindacato di classe e scrivevo le mie cronache politiche per una rivista locale molto estremista».
Dal balcone della casa di Andrew Moss il quartiere lo si può abbracciare tutto. E d’altra parte è minuscolo e ordinato, con solo due grandi strade – Market e Castro a delimitarlo, e le linde casette di legno chiaro in fila come fettucce su e giù per la ripida collina, in mezzo a sequoie e anche qualche palma. Si dice che la prima popolazione gay vi si stabilì ai tempi della Seconda guerra mondiale: marinai ingombranti e poco guerrieri, che la Marina scaricava a terra prima di salpare per il Pacifico, si sistemarono vicino a operai scandinavi e irlandesi. A metà degli anni settanta, per merito di un attivista geniale, Harvey Milk, ottennero un assessore nel municipio di San Francisco. Era la prima volta – al mondo – che i gay avevano una rappresentanza politica. Castro divenne così una ‘zona liberata’, meta di turismo e sede di una continua e frenetica attività sessuale. Viene il tramonto e si accende la gigantesca scritta al neon sulla facciata bianca del Castro Theatre, il monumento un po’ spagnolo, un po’ barocco, un po’ liberty in cima alla collina.
«Ecco, guarda dirimpetto al teatro, dove c’è l’insegna di Walgreens», mi dice. «Lì trent’anni fa c’era un piccolo negozio di Cleve Jones, uno dei principali collaboratori di Milk. E su quelle vetrine, nel 1981, vennero esposte le piante dei piedi di Bobbi Campbell… Credo sia stato il primo segno dell’arrivo della peste a San Francisco ».
Bobbi Campbell era un militante gay, attivo nella politica cittadina e di professione infermiere in ospedale. Era andato con il suo fidanzato per qualche giorno a Big Sur e lì aveva scoperto quelle macchie sulla pianta dei piedi. Macchie, che poi erano diventate vesciche, rosso scure. Era qualche tempo che tra i gay c’erano malattie strane e misteriose. Per questo Cleve Jones aveva fotografato i suoi piedi e li aveva esposti in vetrina. (…) Bobbi Campbell sarebbe diventato uno dei primi attivisti per i diritti dei malati di Aids, che allora non si chiamava ancora così. Cambiò aspetto e divenne membro delle Sister of Perpetual Indulgence, un gruppo di drag queen molto famoso a San Francisco. Prese il nome di Florence Nightmare, un po’ perché era infermiere come Florence
Nightingale, un po’ perché quello che viveva era un incubo. Nei tre anni che precedettero la sua morte, fu un infaticabile testimonial dei diritti dei malati, del sesso sicuro, del finanziamento della ricerca, dell’opposizione al bigottismo. Se teneva un comizio, lo faceva precedere da
I will survive, che divenne il vero inno gay.
Il professor Andrew Moss fu associato, come epidemiologo, ai primi coraggiosi tentativi di combattere la peste. Quelle macchie di Bobbi Campbell erano sintomi di un tumore raro, che portava il nome di Moritz Kaposi, un dermatologo ungherese dell’Ottocento. Nel 1982, oltre a quello di Bobbi Campbell vennero segnalati altri trenta casi, tra San Francisco e New York.
«Le segnalazioni si moltiplicavano, i giornali cominciarono a parlare del ‘cancro degli omosessuali’, ma non c’era niente di sicuro», mi racconta Andrew. «(…) L’unica cosa che sapevamo era che ‘qualcosa’ – ma non sapevamo cosa – era in grado di distruggere il nostro sistema immunitario e che le vittime erano omosessuali’.
(…)
Il numero e le previsioni vennero fuori abbastanza presto, ma erano così spaventosi che necessitavano di molta cautela prima di essere diffusi, perché le ripercussioni politiche e sociali avrebbero potuto essere incontrollabili. (…) Moss scelse di comunicare i dati in una riunione riservata ai dirigenti delle due principali associazioni gay della città, la Alice Toklas e la Bay Area Advocate. Erano questi: «Qui abbiamo una popolazione gay con persone che hanno anche 300 rapporti sessuali all’anno. Diciamo, per amore della discussione e probabilmente per difetto, che solo il 5 per cento è promiscuo; ma sono quindi 2750 uomini che vedono 300 partner diversi all’anno, diciamo per cinque anni. Questo fa 4.125.000 rapporti sessuali in cinque anni. Ora, se anche solo il 10 per cento di quei 2750 – e quindi 275 – si sono infettati con ‘questa cosa con cui abbiamo a che fare’, ma che sospettiamo abbia a che fare con il sangue e il sesso, le possibilità di contagio riguardano comunque 412.500 incontri sessuali in cinque anni. Ora, ipotizziamo che il contagio – e di nuovo a essere molto prudenti, – si verifica nell’1 per cento dei casi, questo significa che 4125 uomini a San Francisco hanno già contratto l’infezione. E non sappiamo qual è il tempo di latenza». La sala restò ammutolita. Gli sguardi volevano dire: «Stai dicendo che siamo già tutti morti?».
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
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Sarà oggi in libreria La felicità in America, il nuovo libro di (Feltrinelli, pagg. 260, euro 16) Qui ne anticipiamo una parte



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