«Io, iraniana in esilio ora posso tornare a casa»

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La recente apertura dell’Iran, coincisa con la vittoria alle presidenziali di giugno del moderato Hassan Rouhani, si è concretizzata in un inedito clima di dialogo con la comunità internazionale, ieri, a Ginevra nel primo giorno del nuovo round sul nucleare. Teheran ha presentato un piano «in grado da far superare lo stallo nei negoziati». Ma dopo un decennio di mancate intese — hanno messo in chiaro sia gli iraniani sia gli americani — ci vorrà tempo per arrivare a un accordo e mettere fine alle sanzioni contro la Repubblica islamica.
«Ho parlato proprio ora al telefono con mia madre in Iran e le ho detto: “Penso di poter tornare finalmente a casa”. Ma lei mi ha risposto: “No, è troppo presto”». Shirin Neshat, 56 anni, l’artista iraniana più famosa e premiata al mondo per la sua fotografia, le video-installazioni e i film che esplorano questioni di genere, di identità e di potere nelle società islamiche, parla al Corriere da New York, dove vive e lavora. Per lei, divisa tra una vita americana e l’eredità iraniana (e distante da una madre ottantenne che può incontrare solo «in Paesi terzi come la Turchia e Dubai»), questo è un momento di grande ottimismo. «Tra gli iraniani della diaspora, molti si chiedono se sia arrivato il momento di tornare». Nata a Qazvin, a 150 chilometri da Teheran, Neshat si è trasferita in America nel 1974 (5 anni prima della Rivoluzione Islamica che rovesciò lo Scià) per studiare arte a Berkeley, ed è tornata solo nel 1990 in un Iran cambiato radicalmente: quel viaggio e il contatto con gli effetti di quella rivoluzione l’hanno trasformata in un’artista, a partire dalle famose immagini in bianco e nero di donne con visi, mani e piedi istoriati da calligrafia persiana e giustapposti alle armi («Donne in Allah», 1993-1997). La differenza tra ieri e oggi è evidente osservando i volti di «Il libro dei re» (2012) ispirati alla gioventù istruita e non-ideologica della «Rivoluzione Verde» iraniana e delle Primavere arabe. Ma oggi Neshat assicura che il suo Paese è lontano da una nuova rivoluzione.
L’ultima volta che ha messo piede in Iran?
«E’ stato nel 1996. Non mi sentivo al sicuro. Non sono su una lista nera, niente del genere, ma il mio lavoro è stato criticato nei giornali governativi. Di solito il regime ha problemi con personaggi come me».
Di fronte ai colloqui tra l’Iran e l’America e ai segnali di apertura interna dopo l’elezione del presidente Rouhani, si sente ottimista?
«La verità è che, come molti iraniani, sono molto ottimista, anche se tutto è ancora nuovo, anche se è troppo presto. Fuori e dentro l’Iran, c’è un senso di grande eccitazione per la possibilità di cambiamento e di moderazione. Non parlo del nucleare, non ne so abbastanza: sono un’artista. Ma dal punto di vista culturale, la gente dice che c’è una nuova energia: molte gallerie stanno aprendo, c’è chi investe nell’arte, tanti osano di più. La reazione è stata quasi immediata. Allo stesso tempo, però, ci sono casi come quello del regista Mohammad Rasoulof, cui è stato confiscato il passaporto al ritorno in Iran, a settembre. Ma ciò non mi sorprende: i suoi film sono molto critici, anzi mi aveva colpito il fatto che fosse tornato così presto».
Che speranze nutre la gente nei confronti di Rouhani?
«Gli iraniani non pensano di sbarazzarsi del regime ma sperano di tornare ad una situazione di apertura simile a quella che avevamo prima di Ahmadinejad, con la presidenza di Khatami. In quel periodo, anche alcune delle mie opere furono messe in mostra in Iran. Mi sono pentita di non essere rientrata allora: avrei dovuto farlo prima che la situazione peggiorasse con Ahmadinejad e col ritorno a una politica estremista. Ora alcuni prigionieri politici sono stati rilasciati, ci sono segnali nei confronti delle donne. La mia famiglia e i miei amici sono ottimisti. E ci sono speranze di pace tra l’Iran e gli Usa dopo quasi 35 anni. Ma è presto, la politica è imprevedibile».
A che cosa crede siano dovute le attuali aperture dell’Iran?
«Ad essere onesti, parte del cambiamento è dovuto al fatto che Khamenei, la Guida Suprema, si è reso conto che la gente non è la stessa del 1979 e che non tollera l’estremismo. I cambiamenti vengono dall’alto, perché il regime ha capito che per restare al potere deve modificare il proprio modus operandi. I giovani di oggi sono molto diversi dalla mia generazione, che è stata responsabile della rivoluzione. Allora le donne erano più sottomesse agli uomini e alla religione, e non erano istruite: io ho studiato, ma le mie sorelle no. Dopo la Rivoluzione Islamica le donne sono state incoraggiate ad andare all’università, e oggi quasi tutte studiano, lavorano, e fanno sentire la propria voce. L’uso di Internet, poi, ha connesso gli iraniani al mondo. Questa è la principale minaccia per il regime: la gente non è più sottomessa».
Però la gente non vuole una nuova rivoluzione?
«Gli iraniani si sono fatti furbi. Hanno capito che non c’è verso di avere una rivoluzione, perché non ci sono leader alternativi e, dunque, la situazione va modificata dall’interno cambiando lentamente il sistema. Hanno visto cos’è accaduto in Egitto e in altri Paesi dove rovesciare i regimi non ha portato ai risultati sperati, e stanno pensando che sia meglio optare per cambiamenti graduali. Alcuni, poi, non vogliono davvero rovesciare il regime perché sono nati dopo la Rivoluzione Islamica ed è tutto ciò che conoscono, ma vogliono una maggiore moderazione».
Viviana Mazza


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