I TRE FRONTI DELLA PALUDE

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 Quel pulviscolo di abitudini e stili che hanno condizionato e frenato larga parte dell’attività governativa dal ’94 ad oggi. È quell’insieme di crollabili certezze che hanno paralizzato il Paese in questi anni. È come se l’ombra del Cavaliere si allungasse ancora su Alfano e sul suo partito. Bloccandone la svolta e imbrigliandone l’autonomia.
Lo scontro che nel giro di pochi giorni si è di nuovo aperto tra Pd e Pdl, infatti, sembra lo specchio più fedele di quella tendenza a trasformare tutto in una palude indistinta. In cui la scelta più consueta è quella di non intervenire. Si sono così riaperti almeno tre fronti in cui la strana maggioranza si è divisa verticalmente. Sulla giustizia e sull’ipotesi di amnistia, sulla politica economica e fiscale (la legge di Stabilità non è ancora pronta) e sull’emergenza immigrazione. La legge Bossi-Fini sembra un totem intoccabile per il centrodestra anche di fronte ad una tragedia senza precedenti come quella di Lampedusa. E il voto al Senato per l’abolizione del reato di clandestinità ha già scatenato la reazione del Pdl che chiede la correzione di quell’emendamento votato dai democratici insieme al Movimento 5Stelle. Una situazione che rischia di immergere nuovamente il Paese in quello stagno di inefficienza e inazione che ha contraddistinto gli esecutivi guidati da Berlusconi. Presentarsi come hanno fatto i ministri “alfaniani” come le «sentinelle antitasse» acuisce il pericolo- paralisi.
Il governo di Enrico Letta è nato con una consapevolezza: sarebbe stato giudicato sulle cose fatte, sui risultati conseguiti. L’essersi liberato (forse) del pesante fardello del Cavaliere costituisce una grande opportunità. Il premier non deve più temere gli agguati dell’ex leader del centrodestra, non deve fare i conti costantemente con le sue esigenze personali o con il calendario delle procure in cui figura come indagato o imputato. Sa che la minaccia della crisi è spuntata e che le “colombe” del centrodestra non hanno la voglia né la forza di provocare una rottura. Ma per trasformare queste opportunità in azione concreta il Presidente del consiglio deve reclamare un passo in più ad Angelino Alfano. Per un semplice motivo: la nuova maggioranza invocata nell’ultimo dibattito parlamentare, al momento non si è appalesata. Letta aveva parlato nel suo discorso a Montecitorio di «maggioranza politica e maggioranza numerica». Se il nuovo capo del centrodestra non chiude rapidamente le questioni interne e non traccia un solco netto rispetto alla precedente gestione, quella separazione invocata dal premier rischia di diventare solo una speranza.
Non a caso i sintomi della irrisolutezza di Alfano si sono colti proprio ieri. L’immagine di una coalizione spaccata su tre questioni nodali è il prodotto della indeterminatezza del nuovo centrodestra: che traccheggia nel guado che separa la stagione berlusconiana da quella di un moderno ed europeo partito conservatore. Un’indecisione che costringe i due principali soci delle larghe intese a sbandierare i rispettivi vessilli. Perché se il Pdl ha imbracciato le sue bandiere storiche anche il Pd è costretto a comportarsi nello stesso modo. Certo, la battaglia dentro il Popolo delle libertà richiederà un minimo di tempo. In gioco non ci sono solo le spoglie del vecchio leader, ma anche un’eredità di consensi elettorali ed economici. Ma Letta, molto probabilmente, non potrà aspettare troppo a lungo. I tempi di Alfano dovranno inevitabilmente ridursi. Anche perché nel frattempo si sta aprendo anche nel Partito democratico la gara congressuale. E nessuno può fare sconti. Di certo non ne farà Matteo Renzi se vincerà le primarie dell’8 dicembre. Fino ad allora – e anche dopo – Letta dovrà via via sempre più reclamare “qualcosa di sinistra”. Il primo banco di prova resta la legge di Stabilità da cui dipendono buona parte delle sorti e della reputazione del governo in Europa. Ma il secondo appuntamento potrebbe essere il più delicato: quello della riforma elettorale. Soprattutto se la Corte costituzionale dovesse accogliere a dicembre il ricorso contro il Porcellum. Un’ipotesi su cui in pochi scommettono. Ma che agita comunque fin da ora tanto il Pd quanto il Pdl.


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