Corsa mondiale al riarmo navale e i cantieri cinesi sbarcano in Borsa

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Ma dopo un quarto di secolo di guerre terrestri, dall’Iraq all’Afghanistan, la crisi nel Mar cinese e la sempre crescente avversione all’impiego di soldati per azioni sul terreno, sta spingendo i ministeri della Difesa a rilanciare le grandi e piccole navi. Qualche esempio: il Giappone ad agosto ha messo in mare la sua unità più grande dai tempi della Seconda guerra mondiale. L’incrociatore tuttoponte Izumo può imbarcare 14 elicotteri e 450 marines e navigare a 30 nodi: costo 1,3 miliardi di dollari. Sempre in estate l’India ha varato la sua prima portaerei. L’Australia si dota di navi d’assalto anfibio; il Vietnam compra sottomarini russi; le Filippine acquistano navi costiere da Usa e Giappone e unità di seconda mano dalla Francia. Il Pentagono, che ha dieci portaerei, ne prevede altre due della classe Gerald Ford (sempre che i tagli al bilancio lo consentano). Ci sono una dozzina di portaerei in costruzione nel mondo. Il costo complessivo del riarmo navale in vent’anni è previsto in 800 miliardi di dollari.
A questa revisione strategica (corsa al riarmo oceanico) partecipa la Royal Navy britannica, che un tempo dominava i mari: nel 2014 sarà pronta la prima di due portaerei classe Queen Elizabeth. Nel 2022 il 46% della spesa militare di Londra sarà per la Marina: «È la nostra rinascita — ha detto con orgoglio il Primo Lord dell’Ammiragliato George Zambellas —, la Navy torna nel business».
Ma in tema di affari i più creativi sono gli strateghi di Pechino: China Shipbuilding Industry, cantieri navali statali che lavorano per la Difesa, hanno deciso di fare rotta sulla Borsa, cercando 1,4 miliardi di dollari sul mercato azionario con un’offerta pubblica di collocamento sulla piazza finanziaria di Shanghai.
Finché c’è tensione sui mari c’è speranza, per le marine da guerra e i costruttori.


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