Forme di vita oltre l’ambivalenza

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È questo il punto di avvio di David Harvey nel suo Città ribelli (il Saggiatore) che ha un obiettivo ambizioso: tratteggiare un punto di vista forte non solo sulle trasformazioni urbane, ma anche di comprendere fino in fondo il ruolo svolto dal capitale finanziario nel far ripartire lo sviluppo economico ridisegnando i rapporti sociali e di classe nelle metropoli. In una successione storica e geografica che parte dalla «Parigi capitale del XIX secolo» per passare alla Los Angeles del XXI secolo, approdando infine alla prometeica trasformazione urbana cinese degli ultimi dieci anni, il geografo americano applica creativamente la versione dei cicli economici di Giovanni Arrighi alle metropoli.
Per Arrighi, il capitale finanziario interviene nella fase discendente di un ciclo economico, quando cioè il centro dello sviluppo capitalistico perde la sua spinta propulsiva e il denaro deve svolgere un ruolo di supplenza rispetto a quelli svolti da commerci, manifattura e dallo Stato nel garantire la produzione di ricchezza. Per estensione, Harvey sostiene che la metropoli è il luogo dove il capitale manifesta la sua crisi e dove la finanza garantisce una «distruzione creatrice» di nuovi assetti urbanistici che garantiscono l’investimento di eccedenza di capitale che la «normale» produzione di merci non riesce ad assorbire. Poco interessa se tale eccedenza viene investita in una città o in un’altra sia dello stesso stato-nazione che di altri paesi. Il capitale è mobile e può facilmente spostarsi perché la controrivoluzione neoliberista ha cancellato barriere normative e confini nazionali.
L’analisi di Harvey è rilevante perché assegna alla metropoli un ruolo strategico nella gestione della crisi economica. Vengono così al pettine tutti i nodi dei rapporti sociali. La metropoli è dunque il luogo dove la produzione di merci ha il suo habitat; ma è anche il contesto in cui le classi vengono continuamente rimodellate.
Non è infatti un caso che il geografo americano critichi la cultura dominante nella sinistra, sia statunitense che europea, quando assegna alla classe operaia centralità nel conflitto sociale. Sono altri i soggetti che entrano in campo nella metropoli. Possono essere donne, piccoli artigiani, professional declassati, ma non sono certo «tute blu». Si tratta di un «proletariato» che fa del diritto alla città una griglia politica per affermare diritti sociali di cittadinanza e una contestazione dell’uso capitalistico del territorio, attraverso la sperimentazione di forme di vita altere rispetto ai rapporti di potere dominanti. È su questo crinale che l’analisi di David Harvey manifesta la sua ambivalenza. Il «proletariato» indicato da Harvey ha bisogno di una sintesi politica che non può essere certo garantita dalle forme politiche «classiche» (il partito o il sindacato). Da qui l’invito a lavorare per una Comune del XXI secolo. Nulla da obiettare, così come è convincente la sottolineatura della «precarietà» come condizione sempre più generalizzata delle relazioni tra capitale e lavoro vivo.
Ciò che merita di essere discusso è la progressiva trasformazione della metropoli in un conclamato habitat produttivo dove forme di vita, riproduzione della stessa forza lavoro sono diventate attività lavorativa o processi di valorizzazione del lavoro vivo. Il richiamo alla formula del «comune» non ha nessuna eco esotica, bensì è la realtà del moderno regime di accumulazione. Da questo punto di vista, la centralità è da assegnare al lavoro vivo, perché la metropoli è un caleidoscopio di produzione immateriale (high-tech, ma anche le imprese che gestiscono la riproduzione della forza-lavoro dopo la privatizzazione del welfare state) e produzione materiale. La finanza, in questo caso più che ruolo suppletivo svolge un ruolo di governance dello sviluppo capitalistico.
Non è certo la prima volta che il capitalismo vede all’opera questo protagonismo della finanza. È accaduto nel settore high-tech, dove il capital venture assieme alla funzione normativa dello stato ha consentito la cosiddetta «rivoluzione del silicio». Sta accadendo nel bio-tech, dove la finanza e le norme della proprietà intellettuale sono gli strumenti di governo di un settore produttivo – le biotecnologie e le «tecnologie della vita» – che cresce in concomitanza proprio con la dismissione del welfare state. È la regola per quanto riguarda le trasformazioni urbane.
La posta in gioco, allora, è la riappropriazione del comune, che non coincide solo con l’accesso al comune e degli spazi pubblici, ma anche con lo sviluppare forme di produzione alternative a quelle dominanti. La dimensione politica non sta, quindi, solo nella ricerca di una forma organizzativa adeguata e che non ripercorri i sentieri già battuti in passato, ma nello sperimentare un comune politico che valorizzi le differenze della forme di vita presenti nella metropoli. In fondo, sciogliere le ambivalenza altro non vuole dire che costruire proprio una Comune, interrompendo così il tempo di vita del capitale.


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