Napolitano, le tappe per evitare la crisi Voto di fiducia e un «sì» fino al 2015

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ROMA — Vuole un percorso lineare e senza ambiguità, altrimenti gli italiani non capirebbero. Suggerisce, dunque, «una successione di passi» in grado di sgombrare al più presto — con pronunciamenti e voti inequivocabili — l’ombra di una crisi di governo di fatto aperta ma non formalizzata. Infatti, resta ancora da valutare la portata dei distinguo e dei dissensi echeggiati in casa Pdl e indecifrabili le voci di scissione dentro il partito tra descamisados e moderati, con l’ipotetica nascita di un nuovo gruppo parlamentare, quei segnali sembrano per il momento più sussulti che altro… importanti, certo, eppure chissà se anche decisivi. Nè c’è da avere grandissima fiducia che un futuribile rassemblement centrista possa offrire il necessario soccorso a Palazzo Chigi (le cosiddette «piccole intese»). Meglio quindi verificare davanti alle Camere se ci sono le condizioni per non gettare la spugna. E in una simile sfida, ammesso che esista ancora una chance di vincerla, conteranno tre cose: 1) la responsabilità di tutti nell’autoanalisi che comincerà alle Camere mercoledì, prima al Senato e poi a Montecitorio; 2) i toni e i contenuti dell’appello del premier; 3) la credibilità del programma, da proiettare ambiziosamente fino al 2015.
Sono stati soprattutto questi i ragionamenti intorno ai quali si sono concentrati per un’ora e mezza di colloquio ieri sera Giorgio Napolitano ed Enrico Letta. E il comunicato del Quirinale che ne è seguito è indicativo di quest’aria di sospensione, carica di contraddittori scatti in avanti o laterali. Aria di sospensione perché, secondo molti esempi del passato, ci si sarebbe potuti aspettare che l’inquilino di Palazzo Chigi si presentasse al Colle dimissionario e che il capo dello Stato respingesse le sue dimissioni rinviandolo a chiarire i termini della crisi davanti alle Assemblee. Così non è accaduto. Forse per un bisogno di sdrammatizzazione, magari a uso di Borse e mercati che riaprono oggi. O forse per dare alla politica, in un contesto tutt’ora fluido, un’ulteriore pausa di riflessione.
Non a caso il Colle fa sapere che «il succedersi di dichiarazioni pubbliche politicamente significative dei ministri dimissionari, di vari esponenti del Pdl e dello stesso presidente Berlusconi ha determinato un clima di evidente incertezza circa gli effettivi possibili sviluppi della situazione politica». Così, Letta non si rassegna e ancora non abdica. Anzi, rilancia. Riproponendo nella «sede propria di ogni chiarimento» — le Camere — il proprio esecutivo non per un traghettamento verso elezioni vicine, come qualcuno pretende, né per un’azione di piccolo cabotaggio, ma per un impegno solido, su un orizzonte proiettato ben oltre il semestre italiano di guida europea, che scatterà nel giugno 2014. Se non otterà la fiducia, la partita tornerà nelle mani di Napolitano. Il quale, prima di dichiarare chiusa la legislatura, tenterà l’unica alternativa che gli resterebbe a disposizione: un «governo del presidente» o «di scopo», scegliendo un premier dal profilo tecnico — e i nomi che corrono sono quelli di Fabrizio Saccomanni e di Giuliano Amato — cui affidare un programma minimo: la legge di Stabilità e la riforma del sistema elettorale. Soltanto dopo che quella «missione» fosse completata potrebbe rimandare gli italiani al voto.
Questo resta un forte argomento di dissuasione per chiunque punti a diroccare l’esecutivo di larghe intese, minacciando ormai perfino il Quirinale e a costo di scatenare una crisi di sistema. Il capo dello Stato lo ha spiegato con chiarezza ai cronisti, ieri mattina, prima di rientrare da Napoli: «Se ho fiducia nel Pdl? Il presidente non è che si fida di una forza politica o dell’altra, ma valuta e agisce in base ai numeri determinati dagli elettori». Questione di numeri, insomma. Più o meno le stesse cose che aveva detto in marzo a Pierluigi Bersani, nei giorni in cui il segretario del Pd chiedeva l’incarico rincorrendo il labilissimo ed etereo consenso dei 5 Stelle. Pertanto, aggiunge, «valuterò tutte le opzioni, senza preconcetti… vedrò se ci sono le possibilità per il prosieguo della legislatura». Ora, posto che la finestra elettorale di novembre è sbarrata, un’altra cosa importante ha precisato Napolitano: «Vedendo quale sarà il percorso possibile, procederò a un’attenta verifica dei precedenti delle altre crisi, a partire da quella del secondo Prodi». Un cenno che ci richiama al gennaio del 2008, quando il professore azzoppato tentò il voto di fiducia in Aula: fu sconfitto e restò in carica 60 giorni «per l’ordinaria amministrazione», mentre il Quirinale diede a Marini l’incarico di «esplorare» l’esistenza o meno di una maggioranza almeno per riformare il Porcellum. Un’avventura abortita e che ci riportò dritti alle urne. Esperienza che il presidente non vorrebbe far rivivere a un’Italia che ora gli sembra sotto choc fino alla catalessi: «Un Paese rassegnato e prigioniero di un pericoloso disinteresse». Non per nulla è rimasto molto colpito dal «silenzio assordante» calato su quest’assurda prova di forza da parte del mondo delle imprese e dalla stessa classe dirigente del Paese. Mentre dall’estero risuonava un allarme come non lo si percepiva da anni.
Marzio Breda


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