Servizi, esercito, forze dell’ordine così Telecom trasporta i segreti del Paese

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ROMA — Battezzata con improvvisa resipiscenza e senso di “urgenza”, «questione di sicurezza nazionale», la cessione di Telecom si sistema in cima all’agenda della Politica, delle nostre due agenzie di intelligence (Aise ed Aisi) e impegna Giampiero Massolo, direttore del Dipartimento per le Informazioni e la Sicurezza, a consegnare entro le prossime ventiquattro ore al Copasir, il comitato parlamentare di controllo sui Servizi, un primo “rapporto” sui rischi e le implicazioni del trasferimento a un operatore straniero della proprietà della nostra rete telefonica fissa. Una infrastruttura strategica (la prima nella storia del nostro Paese ad essere ceduta in mani straniere) di cui Telecom (che l’ha ereditata dalla pubblica Sip) è monopo-lista “naturale” perché — a differenza del sistema di ponti radio delle comunicazioni mobili — dalle dimensioni e costi tali da renderla non “doppiabile”. E su cui dunque si appoggiano, da quando il mercato è stato liberalizzato, non solo tutti gli altri operatori privati (italiani e non) che assicurano i servizi di telefonia fissa. Ma che innerva — ecco il punto — l’intero sistema di comunicazione delle forze di polizia, quello della nostra intelligence, i network di comunicazione riservata della pubblica amministrazione e delle nostre istituzioni, una parte non irrilevante del flusso di informazioni della nostra difesa.
Nella questione — per come in queste ore la declinano fonti qualificate di governo e dell’intelligence, esperti ed analisti di security — non gioca soltanto l’emotività di un Paese che ciclicamente si scopre o si sente abusivamente spiato. Non morde soltanto il ricordo, ancora vivissimo e sub iudice
della giustizia penale, di quel 2006 quando fu proprio in Telecom che si consumò per mano aziendale e con la complicità di un pezzo dell’allora servizio militare (Sismi) la più macroscopica e abusiva operazione di sorveglianza e intrusione in danno di centinaia di cittadini (il caso Tavaroli/Sismi) diventati “bersagli” inconsapevoli. Nella questione — per dirla con le parole di una qualificata fonte della nostra intelligence — «balla, come
ha insegnato il caso Snowden, il futuro di un pezzo significativo della nostra piena sovranità e dunque della nostra libertà ». Perché la rete fissa non significa soltanto “comunicazioni voce” attraverso i cavi in rame ma, oggi e soprattutto in prospettiva, significa i cavi in fibra ottica che trasportano i macro-dati. I Big data, appunto. Quelli di cui ha fame ogni governo e intelligence del mondo. Che siano quelli dei propri cittadini. O, ancora meglio, quelli di altri Paesi.
In un paradossale cortocircuito, dopo aver discusso nei giorni del caso Snowden fin dove fosse legittimo aver autorizzato per decreto i nostri Servizi segreti all’accesso alle banche dati delle società di gestione delle infrastrutture strategiche (trasporti, comunicazioni, sanità) «per la prevenzione del cyber terrorismo» (la questione venne sollevata proprio da un’inchiesta di “Repubblica”), si “scopre” infatti che, con la cessione agli spagnoli di Telefonica, si consegna serenamente al mercato la proprietà di quell’infrastruttura che espropria il Paese dello strumento necessario per proteggere i propri dati sensibili. «Perché — osserva un analista del nostro Servizio estero — se è vero che oggi la Rete sarebbe controllata dagli spagnoli, le regole del mercato sono tali che nessuno può sapere se tra un anno, due, cinque, quella Rete non sarà nuovamente venduta per finire ad operatori di altri Paesi. Magari non amici». Non a caso, in altri Paesi come l’Inghilterra ad esempio, la proprietà e la gestione della Rete fissa sono scorporate. L’una (la gestione) è affidata alla libera competizione del mercato. La seconda (la proprietà), a un azionariato diffuso che ne conserva il pieno controllo nazionale.
C’è di più. Ed è appunto nell’insistenza dell’aggettivo con cui gli addetti segnalano che la Rete è infrastruttura «strategica». In quanto tale, «funzione della politica di un Paese», per dirla con le parole di una fonte di governo. Dunque, non misurabile in termini di valore economico, per altro oggi valutato tra i 12 e i 15 miliardi di euro (di un terzo superiore alla capitalizzazione di Telecom). Perché «non negoziabile». Un discorso che vale oggi per le telecomunicazioni e — a maggior ragione — per altre infrastrutture cruciali come gasdotti ed elettrodotti.
«Avere non solo la gestione, ma anche la proprietà dello strumento che garantisce il flusso delle comunicazioni del Paese — prosegue la fonte di governo — implica la possibilità di incidere sulle nostre scelte contingenti e soprattutto future. Acquisire, anche solo potenzialmente, un potere di pressione e ricatto. Ma anche decidere, in termini strategici appunto, che tipo di Rete l’Italia di qui ai prossimi anni debba avere. E con quali potenzialità». Di più: «Equivale ad avere un domani la mano sul rubinetto dell’energia, gas o elettricità, che tiene accesa l’economia del nostro Paese». E’ successo in altri contesti, si pensi al caso Russo-Ucraino. Può succedere anche in Italia se il caso Telefonica dovesse diventare un precedente. Per questo, la partita che si è aperta si scrive «sicurezza nazionale», ma si legge sovranità.


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