Napolitano: no al conflitto politica-giustizia

Loading

ROMA — È un incendio «da spegnere nell’interesse del Paese», subito. «Un conflitto fuorviante» e «gravido di conseguenze pesanti per la stessa vita democratica». Una «spirale di contrapposizioni che da troppi anni imperversa» e da neutralizzare magari «passando attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto». E in questo sforzo anche gli operatori della giustizia dovrebbero fare la loro parte, con «comportamenti ispirati a quei valori e criteri (l’equilibrio, la sobrietà e il riserbo, l’assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite) che sono il miglior presidio dell’autorità e dell’indipendenza del magistrato».
Non cauziona nessuno, neppure le toghe, il discorso con cui Giorgio Napolitano rilancia la questione sulla quale dal 1992 l’Italia si divide. Un appello/avvertimento che pronuncia durante una giornata di studio che la Luiss ha dedicato a Loris D’Ambrosio, magistrato già vicino a Falcone e poi vicino a lui, in veste di consigliere per gli affari della giustizia. Un «collaboratore e amico» stroncato da un infarto il 26 luglio 2012, al culmine di «una campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni ed escogitazioni ingiuriose» — così la definì il necrologio del Quirinale — nata sulla scia dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia .
Quel lutto è ancora da elaborare, per il presidente. Come è tutt’ora da risolvere l’eterna controversialità che sta sullo sfondo. Insomma, le tensioni per le quali D’Ambrosio divenne «vittima di un perverso giuoco politico-giudiziario e mediatico» sono sempre lì e il capo dello Stato le elenca, aggiornandole. Descrive il proprio consigliere come un «civil servant», ispirato a «un modello di comportamento davvero indipendente da ogni connotazione particolaristica o partigiana, sinonimo di dedizione esclusiva all’interesse generale del Paese e delle sue istituzioni». E subito dopo evoca il titolo di «impiegati pubblici», riferibile pure ai magistrati, che qualcuno (Berlusconi, non nominato) utilizza in chiave denigratoria. Quella definizione, dice Napolitano, «non dovrebbe essere mai usata in senso spregiativo», anche se «non può oscurare la peculiarità e singolare complessità delle funzioni giudiziarie». Infatti, aggiunge, «non c’è nulla di più impegnativo e delicato che amministrare giustizia, garantire quella rigorosa osservanza delle leggi, quel severo controllo di legalità che rappresentano un imperativo assoluto per la salute della Repubblica». Funzioni, e figure, cui andrebbe indirizzato un «inequivoco rispetto» e che «sono invece spesso travolti nella spirale di contrapposizioni» delle quali l’Italia è ostaggio.
Ecco il punto chiave del suo ragionamento: il conflitto va superato. Questo è «l’obiettivo costante» del suo impegno al Quirinale. E lo dimostra il fatto che fin dal 2008, davanti al Csm, esortò la politica e la giustizia a smetterla di «concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco, anziché uniti da una comune responsabilità istituzionale». Sono passati cinque anni, da quel richiamo. Ma le ragioni che lo ispirarono restano intatte. Tanto che, spiega il capo dello Stato, ancora «ci tocca operare in questo senso, senza arrenderci a resistenze radicate e a nuove recrudescenze del conflitto». Un assedio incrociato che imporrebbe anche un «contributo» delle toghe. Ossia lo «sguardo esigente e non acritico» che D’Ambrosio ebbe «verso la sua casa, il suo mondo».
Serve dunque un approccio diverso ai problemi aperti, a partire dalla formazione in «senso deontologico» della formazione di giudici e Pm. Ed è qui che Napolitano elenca i «modelli di comportamento» ideali, con l’indicazione di «equilibrio, sobrietà, riserbo, imparzialità, senso della misura e del limite». Traducendo: meglio allontanare le suggestioni dei riflettori o l’idea di improprie missioni salvifiche sulle quali la politica ha molto, e strumentalmente, recriminato. Del resto, rammenta il presidente, basta ripensare alla «forte e coraggiosa riflessione autocritica» andata in scena giorni fa a Milano, in un dibattito condotto da magistrati «di grande esperienza e di indiscutibile, fiera indipendenza e combattività» (e l’allusione è all’inaspettato sfogo di Ilda Boccassini). Conclusione: «Ne dovrebbe scaturire anche, tra i magistrati, un’attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo». Un auspicio che, tuttavia, cade su un terreno politico sempre diviso. Con lodi del centrodestra (Sisto, del Pdl, dice che così si ristabilisce l’equilibrio tra istituzioni”) e l’apprezzamento del ministro Guardasigilli Cancellieri (“al Paese serve la pacificazione”). Con un telegrafico, e freddino, riscontro del segretario pd Epifani (“Napolitano ha ricordato l’imparzialità e il rispetto che si devono alla magistratura”) e con corrosive bordate di Di Stefano, dei 5 Stelle («È indecente che si parli di finta pacificazione») .
Marzio Breda


Related Articles

Un Pd senza compromessi

Loading

Articolo 18. «La mediazione va bene, ma non a tutti i costi». E Renzi concede poco o nulla alle minoranze del partito. D’Alema attacca: non si governa con gli spot. Bersani accusa: metodo Boffo contro chi non è d’accordo

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment