“Così Al Qaeda massacra i civili”
LATAKIA — La guerra è arrivata fin qui, nella roccaforte di Assad e degli alawiti, la setta in cui affonda l’albero genealogico del rais, ma il mondo quasi non se n’è accorto. Eppure il sangue macchia ancora le case dei villaggi su cui s’è scatenata la furia dei ribelli jihadisti e c’è un agrumeto, ad Abu Makka, dove è stata scoperta una fossa comune sul ciglio della strada, che emana l’odore dolciastro e nauseante della morte. E non è finita. Perché, dopo la sortita d’agosto, interrotta dopo 15 giorni di combattimenti, le brigate di Jabat al Nusra e dell’ISIAL (lo Stato Islamico d’Iraq e del Levante) si son ritirate e raggruppate a Salma, un paesino a ridosso del confine con la Turchia da dove, anche se l’esercito siriano li tiene nel mirino, possono sempre lanciare una nuova offensiva.
Ma quale è stato l’obiettivo che, i primi di agosto, ha mosso i ribelli all’attacco? Portare un colpo mortale al cuore del potere, perché stranamente è qui il cuore del regime, a 350 chilometri da Damasco, su quei monti alawiti che sovrastano Latakia e il Mediterraneo, da dove Hafez el Assad, il padre dell’attuale presidente, è sceso nel secondo dopoguerra non soltanto per dare la scalata al potere, ma anche per riscattare una minoranza che la storia siriana aveva relegato nel ruolo di paria. Se non avessero avuto in mente questo disegno, i capi delle formazioni venuti a sfidare l’esercito, non si sarebbero fatti fotografare durante l’assalto sotto un cartello stradale, e ce ne sono molti del genere su queste montagne, in cui una freccia indica la direzione per Qardawa, il villaggio dove è nato Assad-padre e i chilometri mancanti, 35. «Distanza teorica — dice la mia guida alawita, Sumer, il giovane corrispondente di al Manar, la tv degli Hezbollah — perché a farli in macchina quei 35 chilometri ci vuole un’ora e mezza». Tutta la montagna alawita (Jabal Alawi, o Nasiryah) è un susseguirsi di curve, strettoie, saliscendi che seguono pendii mozzafiato, gole, valloni, vette che si alternano tra i 1000 e i 1300 metri di altezza. La natura è un giardino semplice e ricco di ulivi, di agrumi e melograni che lentamente cedono il posto ai castagni, ai pini, alle querce e persino ai cedri importati dal Libano. Nei villaggi gli anziani vestono gli abiti della tradizione (che furono costretti ad indossare come spregiativo contrassegno di una minoranza reietta), ma i giovani vestono all’occidentale e le donne non portano il velo.
Il 4 agosto, alle tre del mattino, questo panorama essenzialmente agreste viene sconvolto dalle cannonate. Con un’azione improvvisa e rapidissima i ribelli assaltano un posto dell’artiglieria lealista, ammazzano una ventina di soldati e s’impossessano di due carri armati sui quali muovono in direzione del mare, vale a dire di Latakia che dista una quarantina di chilometri, la capitale storica degli alawiti. Cadono uno dopo l’altro i villaggi di Baruta, Bluta, Esterbeh. Sono più che altro nugoli di case con poche centinaia di anime, allineate lungo la strada. Gli alawiti hanno una lunga storia di persecuzioni subite a pretesto della loro fede, specialmente dalla maggioranza sunnita, per riuscire a vincere la paura in una situazione del genere. Fuggono e cadono, feriti o uccisi o presi in ostaggio.
La maggior parte dei fuggitivi cerca di raggiungere Abu Makka. Ma i ribelli tagliano loro la strada. Le pietre bianche che hanno coperto i corpi di 12 persone son ancora lì, a incoronare, la fossa comune lasciata aperta. Ma di cadaveri in decomposizione ce ne devono essere altri nascosti tra gli alberi dell’agrumeto. Una coppia viene abbattuta e sepolta sotto un palo della luce. Sono poche le case che non recano i segni della battaglia. Alcune bruciate, altre devastate dalle cannonate. Adesso l’uragano sembra passato (dopo 15 giorni l’esercito e riuscito a ricacciare indietro i ribelli) e Abu Zen è tornato per cercare di riparare la sua casa. La mura esterne che davano sul giardino sono in parte crollate, ma la struttura sembra aver resistito. In mezzo al cortile un pino secolare mostra il gigantesco tronco amputato come un moncherino. «Io e i miei fratelli — dice — siamo tornati da qualche giorno ma i bambini per ora li lasciamo dove sono. Non mi fido». Ha paura? «Un po’ sì», risponde con pudore. Perché? «Perché sono lì dietro», e si gira verso l’alto costone di roccia al di là del quale si può scorgere il villaggio di Salma, la retrovia dei ribelli dove, dice Sumer, si sono ritirati con 106 ostaggi, dopo aver ucciso 140 persone ed aver perso centinaia di uomini.
E questo spiegherebbe perché adesso l’esercito non possa fare altro che tenerli nel mirino, senza intervenire. Fra i prigionieri, in maggioranza donne e bambini, c’è anche un religioso di grande prestigio, Badr Ghazal di cui si ignora la sorte. Ma è anche una guerra di logoramento. Mentre saliamo verso Sheik Nabkhan, la montagna da cui l’esercito siriano punta i binocoli verso Salma, scrutando le mosse dei ribelli, a quanto pare guidati da un ceceno, un colpo di mortaio colpisce una postazione a 200 metri da noi: un soldato è ferito gravemente, un altro in maniera meno seria. «Li vediamo che stanno ricevendo rinforzi dalla Turchia e da Idlib — dice il colonnello Hassan, che comanda le unità antiterrorismo — Ma le loro intenzioni non sono chiare». «Quanti sono? Migliaia».
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