Il critico che fu l’anima tedesca

Loading

BERLINO — Pablo Neruda intitolò la sua autobiografia Confesso che ho vissuto. Vladimir Nabokov, Parla, ricordo. Di confessioni e ricordi la sua esistenza era densa, come e più di un romanzo. Ma il grande critico letterario tedesco Marcel Reich-Ranicki — morto ieri a 93 anni dopo una malattia che lo aveva costretto a interrompere il suo dialogo con i lettori della «Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung» — si è potuto permettere di chiamare soltanto così, La mia vita, l’indimenticabile racconto delle ferite e dei traumi novecenteschi di cui è stato vittima e protagonista.
Questo libro, che fu elogiato con ammirazione, quasi con invidia, da un premio Nobel come Mario Vargas Llosa, rimarrà una delle più alte testimonianze di un secolo malvagio e dell’ingegno appassionato di un uomo che ha dedicato tutto se stesso a quello che hanno scritto gli altri, i maestri della parola. Lo finì di scrivere proprio in un giorno del 1999, al crepuscolo dell’ultimo decennio. Aveva accanto la moglie Tosia, fuggita con lui dal ghetto di Varsavia e dalla barbarie nazista. Dietro di lei, sul divano nero della loro casa, «i ritratti di Goethe, Kleist, Heine e Fontane, di Thomas Mann, Kafka e Brecht». Nelle ultime righe, due versi di Hugo von Hoffmansthal, a lei implicitamente dedicati. «Non è che un sogno, che un incanto, questo, che noi qui siamo accanto». Un monumento all’amore, al cemento degli affetti risparmiati dalla follia della Storia. A differenza di Tosia, i genitori e il fratello di Reich-Ranicki rimasero intrappolati nel ghetto e furono uccisi durante l’Olocausto.
La vita dell’ex bambino ebreo, figlio di un polacco e di una tedesca, che si rovinava gli occhi leggendo i grandi classici della tradizione letteraria, non fa ombra alla sua eminente attività di critico e di studioso proprio per il legame strettissimo tra l’esperienza personale e gli oggetti del suo studio. Era sia un testimone del mondo che delle lettere. Nessuna delle due cose poteva prendere una strada separata. Nato nel 1920 in Polonia, Marcel Reich (aggiunse il secondo cognome lavorando per l’intelligence polacca a Londra dopo la seconda guerra mondiale) si trasferì a Berlino con la famiglia quando aveva nove anni. Nel 1938 gli fu rifiutata l’iscrizione all’università per motivi razziali e dovette tornare nuovamente in Polonia. Riuscì a scampare alle prime retate nel ghetto grazie al fatto di essere un impiegato del consiglio ebraico. Poi si mise in salvo avventurosamente fino all’arrivo dell’Armata rossa. «I nazisti avevano un solo obiettivo e un solo scopo: la morte», disse un anno fa, la voce leggermente tremante, intervenendo nel Parlamento tedesco in occasione del sessantasettesimo anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz. Nessuno ha dimenticato la forza di quelle parole pronunciate da un uomo non ancora stanco, anche se con il bastone in mano.
Dopo la fine della guerra il futuro critico di «Die Zeit», poi responsabile delle pagine letterarie della «Frankfurter Allgemeine Zeitung», aderì al partito comunista polacco. Ma fu ben presto travolto dai sospetti e coinvolto nei veleni dello scontro ideologico, in un mondo che andava verso la guerra fredda. Console a Londra e poi agente dei servizi segreti, fu prima espulso e poi riammesso da un partito alle cui idee aveva inizialmente creduto. Nel 1958, infine, la decisione di restare nella Germania Ovest dove si era recato per un viaggio di studio. Fu raggiunto dalla moglie e dal figlio Andrew (oggi professore di matematica a Edimburgo) che si erano già trasferiti in Gran Bretagna. «Non rinnego niente di quello che ho fatto in quegli anni, e non vedo la minima ragione di giustificarmi», ha detto molti anni dopo.
In Germania iniziò la sua fortunata carriera di intellettuale. Fu tra i componenti più attivi, insieme a Günter Grass, del «Gruppo 47», il movimento che ha svolto un ruolo importante nella rinascita della cultura tedesca progressista. Con l’autore del Tamburo di latta i rapporti furono sempre divisi tra l’amicizia e la diffidenza. Fino alla definitiva rottura, quando il premio Nobel per la Letteratura 1999 diede alle stampe la sua poesia contro Israele potenza nucleare. «Un testo disgustoso: l’Iran vuole spazzare via Israele, il suo presidente lo annuncia continuamente, e Günter Grass mette in versi il contrario», commentò, indignato. Fiero avversario dell’antisemitismo in tutte le sue declinazioni, Reich-Ranicki si è sempre schierato dalla parte della democrazia e contro i totalitarismi. Lo ha ricordato anche la cancelliera, che si è unita al cordoglio del mondo culturale e politico tedesco piangendo «un amico della letteratura e della libertà». «Il fatto che il figlio di una famiglia ebrea tedesco-polacca, che ha perduto i genitori in un campo di sterminio nazista, abbia ritrovato la sua casa in Germania e abbia tanto donato al nostro Paese — ha detto Angela Merkel — fa parte degli eventi del dopoguerra di cui dobbiamo essere riconoscenti».
All’indiscusso prestigio conquistato con la sua produzione critica si è unita la notorietà ottenuta con la trasmissione televisiva Il quartetto letterario che ha fatto di Reich-Ranicki, in un Paese dove si legge molto, una personalità tra le più ascoltate di tutta la Germania. Per tredici anni, dal 1988 al 2001, i consigli che arrivavano da lui hanno guidato il pubblico, nonostante la sua spigolosità e la sua avversione al compromesso. È rimasta famosa, per esempio, la sua decisione di rifiutare in diretta un premio televisivo, irritato per aver sentito «tante sciocchezze». Un cattivo carattere? Può darsi. Forse tutto cominciò quando sua madre ricamò la scritta «sono bravo» sul suo grembiule di bambino. «Divenni immediatamente a scuola lo zimbello degli altri. Forse ebbe inizio proprio allora — ha ricordato — quella tendenza alla sfida che mi è rimasta per tutta la vita». Una sfida vittoriosa.


Related Articles

SALGADO. LA MIA LETTERA D’AMORE ALLA TERRA SCRITTA CON LE FOTO

Loading

Il maestro brasiliano racconta il progetto “Genesi”, protagonista con le sue immagini eccezionali della mostra aperta dal primo febbraio alla Casa dei Tre Oci di Venezia

“Basta con i miei pupazzi la festa è finita, mi ritiro”

Loading

L’artista: “Non faccio un’opera da due anni, si è chiuso un ciclo. Mi dedico a una rivista” “Dopo la mostra al Guggenheim, il prossimo ottobre a New York, non ho più appuntamenti”

Il suicidio e la sua messa in scena

Loading

I suicidi e la Fiat. Il licen­zia­mento per la colpa di avere por­tato su un piano sim­bo­lico e pro­vo­ca­to­rio la disu­ma­nità dello sfrut­ta­mento si ritorcerà contro l’azienda

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment