Un’Imu più equa, ma necessaria
La cancellazione dell’Imu non è certo una buona notizia dal punto di vista dell’equità e dell’efficienza del sistema fiscale. Pressoché la totalità dei sistemi fiscali evoluti posseggono una componente di tassazione patrimoniale. Il patrimonio, infatti, è un buon indicatore di capacità contributiva, specie se utilizzato ad integrazione, e non in sostituzione, del reddito. L’Italia, invece, si è progressivamente mossa verso l’eliminazione di qualsiasi tributo patrimoniale. Prima, nel 1997, con la cancellazione dell’imposta patrimoniale sulle imprese. Poi con la progressiva riduzione dell’ambito di applicazione dell’imposta sulle successioni. E, da ultimo, con il superamento dell’Ici sulla prima casa. L’Imu, quindi, sanava in qualche modo una lacuna del nostro sistema fiscale, sebbene non fosse esente da critiche.
La debolezza principale dell’Imu consisteva nel suo basarsi sulle rendite catastali, indicatori vetusti e del tutto inadeguati ad esprimere il valore di mercato del patrimonio. Come evidenziato nella relazione resa nota dal ministero del Tesoro quest’estate, tuttavia, tale valore di mercato può dedursi, quantomeno in prima approssimazione e per i fabbricati residenziali, dalla banca dati dell’Omi, Osservatorio del mercato immobiliare, un Ente della (ex) Agenzia del Territorio. Tra l’altro, il valore di mercato risulta mediamente pari a poco più del doppio del valore catastale rivalutato ai fini Imu. Questo significa che, ancorando la base imponibile al valore di mercato, sarebbe stato possibile, per evitare aggravi eccessivi di imposta, ridurre l’aliquota alla generalità dei contribuenti o solo per alcuni, in quest’ultimo caso anche detassando del tutto gli immobili di minor pregio.
C’erano dunque gli spazi e le possibilità tecniche per rendere l’Imu più equa senza perdere gettito. La natura federale dell’imposta avrebbe poi potuto essere mantenuta prevedendo che il gettito stesso venisse interamente destinato ai Comuni, evitando di affidare loro le aliquote onde evitare spiacevoli fenomeni di concorrenza fiscale e assicurare un’omogeneità di trattamento sul piano nazionale.
Si è invece scelta, per il noto “ricatto” del Pdl cui il Pd ha purtroppo ceduto, una strada diversa, ossia il superamento dell’Imu, seppure solo dal 2014, e l’introduzione di una service tax che è ancora tutta da definire. Nel Cdm del 28 agosto ne sono state descritte solo le linee guida, peraltro molto vaghe. Nemmeno il nome (Taser o altro) è stato scelto. Possiamo basarci solo su ipotesi. Attualmente, i Comuni si finanziano utilizzando la Tares, che riunisce la Tia e la Tarsu. Ma l’applicazione della Tares è stata rinviata fino al luglio di quest’anno, quindi non ne conosciamo l’impatto effettivo. La sensazione, tuttavia, è che essa abbia determinato un incremento del carico fiscale. La service tax dovrebbe essere un’imposta comunale destinata a finanziare tutti i servizi erogati dall’ente locale e riunire la Tares e l’Imu. Tuttavia, nelle linee guida del Cdm si prevede comunque l’esistenza di due componenti della service tax, una destinata alla gestione dei rifiuti urbani e l’altra per finanziare tutti gli altri servizi.
La prima componente (Tari) sarà dovuta da chi occupa, a qualunque titolo, locali o aree suscettibili di produrre rifiuti urbani. Le aliquote, commisurate alla superficie, saranno parametrate dal Comune con ampia flessibilità ma comunque nel rispetto del principio comunitario “chi inquina paga” e in misura tale da garantire la copertura integrale del servizio.
La seconda componente (Tasi) sarà a carico di chi occupa fabbricati. Il Comune potrà scegliere come base imponibile o la superficie o la rendita catastale. Sarà a carico sia del proprietario (in quanto i beni e servizi pubblici locali concorrono a determinare il valore commerciale dell’immobile) che dell’occupante (in quanto fruisce dei beni e servizi locali). Il Comune avrà sensibili margini di manovra, nell’ambito dei limiti fissati dalla legge statale.
In sostanza, tralasciando l’imposta sui rifiuti, che peraltro aumenterà considerevolmente in applicazione del principio di copertura integrale dei costi del servizio, con la Tasi il governo sembra reintrodurre dalla finestra quella forma di imposizione patrimoniale che era rappresentata dall’Imu. Tutto bene, quindi, per chi argomenta la necessità di un’equa imposizione patrimoniale? Mica tanto, e ciò per due ragioni. In primo luogo, dalle linee guida si evince che i Comuni potranno scegliere come base imponibile “la superficie o la rendita catastale”. Non c’è quindi più alcun riferimento esplicito al valore di mercato, cui pure secondo il disegno di legge delega di riforma del sistema fiscale ripresentato dal governo, bisognerebbe tendere. Non è chiaro se ciò che ha in mente il governo è tornare, dopo aver già tentato un percorso simile in passato, senza successo, ad affidare ai Comuni la revisione del catasto in modo da avvicinare le rendite ai valori di mercato. L’alternativa della superficie, inoltre, non appare proprio suscettibile, di per sé, di aumentare l’equità nella definizione della base imponibile. Il secondo aspetto critico è legato al fatto che la service tax, per sua natura, è legata al possesso e non alla proprietà, per cui potrebbero doverla pagare anche gli inquilini. Per quanto furore ideologico si metta nella difesa del “sacro” valore della prima casa, non si dovrebbe dimenticare come le indagini sul benessere delle famiglie italiane indichino quelle in affitto come mediamente più povere di quelle che abitano nella casa di proprietà. La mossa rischia quindi di aumentare l’iniquità del nostro sistema fiscale.
Questi cambiamenti non trovano giustificazione neppure nella natura “federale” dell’imposta. Questa, infatti, poteva venire assicurata definendo a livello nazionale la base imponibile (il valore di mercato dell’immobile) e lasciando ai Comuni la sola possibilità di variare l’aliquota entro limiti piuttosto stringenti. Il legame tra, da un lato, il gettito generato dall’imposta e, dall’altro, i servizi offerti ai cittadini dall’ente locale non sarebbe venuto meno a condizione di riservare il gettito stesso ai Comuni.
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