La cupola del Big Business che vuol raddrizzare il mondo

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Lo studio dell’economista Domenico Moro (Club Bilderberg. Gli uomini che comandano il mondo, Aliberti, pp. 172, euro 14) si sofferma sull’analisi di due organizzazioni transnazionali, il Club Bilderberg e la Commisione Trilaterale, che raccolgono la crema del capitalismo mondiale e orientano le politiche degli Stati nazionali e degli organismi internazionali, quali la Commissione Europea, la Bce, il Fmi, la Banca mondiale, il Wto. Il Club Bilderberg nasce nel 1954 in Olanda e prende il nome dall’albergo in cui i suoi membri si riunirono la prima volta. Risponde alla necessità, dopo la seconda guerra mondiale, di espandere il modello del capitalismo Usa nel mondo e di contrastare, oltre l’Urss, l’avanzata del socialismo nei paesi del Terzo mondo e nelle stesse società industrialmente avanzate. I partecipanti sono cooptati in virtù del loro potere e ricchezze, non rispondono ad alcuna autorità pubblica o privata, sono accomunati dal credo del mercato autoregolato, provengono in gran parte dagli Usa e dall’Europa occidentale.
Moro analizza con dovizia di particolari le provenienze nazionali dei partecipanti agli incontri annuali, le biografie, i principali settori di impiego (banche, imprese, mass-media ecc.) e i molteplici legami con i decisori politici, i padroni e gli amministratori delegati di grandi corporation, i banchieri e i finanzieri di mezzo mondo. Insieme ai big delle maggiori imprese e finanziarie internazionali (Royal Dutch Shell, Bp, Pfizer, Alcoa, Nestlé, Unilever, Coca-Cola, Nokia, Barclays, Rothschild, Goldman Sachs, Zurich Insurance e molte altre), l’autore dedica ampio spazio alle presenze italiane nel Club Bilderberg che ha visto nel corso degli anni la partecipazione della famiglia Agnelli, di Franco Bernabè, Tommaso Padoa-Schioppa, Mario Monti, Enrico Letta, Romano Prodi. La presenza di quest’ultimo, commenta l’autore, è «significativa di quanto il Bilderberg sia capace di mettere insieme figure conservatrici e progressiste… L’elemento dominante è l’adesione alla prevalenza del mercato autoregolato sull’intervento statale. Non a caso Prodi fu l’artefice del progressivo smantellamento dell’Iri e della privatizzazione delle banche e dell’industria di Stato, nonché di provvedimenti di liberalizzazione in molti settori».
Molto significativa è, inoltre, la presenza di rappresentanti del settore della conoscenza (università, think-tank, centri di ricerca, società di consulenza legale e commerciale) e del mondo della comunicazione (proprietari di network e giornalisti). Si tratta, per dirla con Gramsci, di un ramificato sistema egemonico che serve a sostenere sul piano ideologico le politiche volte alla massimizzazione dei profitti del capitale transnazionale.
A questa «internazionale capitalista», farà seguito nel 1973 la nascita della Commissione Trilaterale, su iniziativa di Henry Kissinger. La Trilaterale nasce in un momento storico, gli anni Settanta, caratterizzato da una forte crisi di egemonia economica, culturale e politica del capitalismo occidentale, incalzato dalle conquiste sociali e civili di operai e studenti, dall’ascesa dei paesi del Terzo mondo di orientamento antimperialista, dalla sconfitta americana in Vietnam. A differenza del Bilderberg, nota Moro, la Trilaterale allarga la partecipazione dei suoi membri alla Triade del capitalismo mondiale (Nord America, Europa occidentale, Giappone) e diffonde pubblicamente i contenuti del dibattito interno. Tra i temi più discussi ricordiamo quello su «La crisi della democrazia», alla base dell’incontro annuale di Tokio del 1975, in cui tre intellettuali «organici» all’organizzazione, Samuel P. Huntington, Michel Crozier e Joji Watanuki, dichiarano che l’Occidente non può più sopportare un’eccessiva domanda di partecipazione dal basso da parte dei cittadini. Come scrive Huntington, «il funzionamento efficace di un sistema democratico richiede, in genere, una certa dose di apatia e di disimpegno da parte di certi individui e gruppi». Un’idea non nuova, commenta Moro, che ne rintraccia la paternità in un politologo americano, W. H. Morris, che nel 1954 scrisse un articolo intitolato proprio Elogio dell’apatia, che naturalmente va riferito all’apatia delle classi subalterne che meglio farebbero a contenere le loro richieste, evitando un’alta partecipazione al voto, lotte troppo radicali e, ovviamente, nefaste utopie rivoluzionarie.


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