Cultura Re, pellegrini e studenti i primi turisti d’Europa

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L’ Europa è nata per strada. Lungo le vie percorse dai viandanti nei secoli centrali del secondo millennio. Prima di allora, i viaggi erano avvenuti con modalità assai diverse da quelle che sarebbero state in epoca moderna. Nel mondo antico si spostavano eserciti, popoli in fuga, mercanti. E al viaggio era associata un’idea sì di avventura, ma soprattutto di incognita, di pericolo, di morte provocata dai nemici sul campo di battaglia o da avversità nel corso del tragitto. Poi, verso la metà del secondo millennio, qualcosa cambiò. Ed è a questa mutazione che è dedicato uno straordinario libro di Rita Mazzei, Per terra e per acqua. Viaggi e viaggiatori nell’Europa moderna, che sta per essere pubblicato da Carocci. In principio, dicevamo, a spostarsi in tempo di pace furono i mercanti. Per secoli isolatamente. Poi nel Trecento avviene un cambiamento. Nel 1330 si inaugura la fiera di Francoforte, a cui ne seguiranno molte altre. Per anni e anni, nonostante i conflitti religiosi, saranno sempre più frequentate. L’unica sospensione si ebbe al momento della guerra dei Trent’anni (1618-1648). Poi si riprese con le fiere di Francoforte, di alcune città polacche, di Lipsia e, in Italia, di Bolzano.
È il grande momento di mercanti e ambasciatori, i quali, scrive Rita Mazzei, offrono di sé un’immagine che li fissa nell’atto di salire a cavallo, o addirittura con il piede già nella staffa. Il diplomatico è abitualmente raffigurato mentre sta per mettersi in movimento. Il dipinto che meglio presenta questa situazione tipo è del 1495, realizzato da Vittore Carpaccio, a Venezia: la Partenza degli ambasciatori (all’interno del Ciclo di Sant’Orsola), dove i diplomatici inglesi sono rappresentati nell’atto di accomiatarsi dal re di Bretagna. Per compiere quel genere di viaggi era importante essere giovani, nel pieno delle forze. Francesco Guicciardini aveva solo 28 anni quando (nel 1512) fu mandato ambasciatore in Spagna, con il difficile compito di «mantenere la sua città nelle buone grazie di Ferdinando il Cattolico, nonostante il rifiuto della repubblica fiorentina di aderire alla lega antifrancese a fianco del papa Giulio II e della Spagna». Nel loro codice d’onore è definito ogni aspetto dell’atto di mettersi in movimento. Persino in che momento è lecito accettare regali. In quella che è considerata la prima opera francese dedicata al tema, L’Ambassadeur di Jean Hotman de Villiers (1603), si specifica che «l’ambasciatore non può accettare doni dal principe presso cui è stato invitato, se non dopo averne preso congedo, ossia quando sta per montare a cavallo». Mai prima.
I viaggi degli ambasciatori erano lunghi e faticosi, molti gli imprevisti. Il re di Polonia, nel Cinquecento, era anche granduca di Lituania, per cui, quando il padre regnava a Cracovia, il figlio «si preparava e si esercitava» a Vilna. Come fu per Sigismondo il Vecchio e Sigismondo II Augusto. E così quando moriva un re poteva capitare che gli ambasciatori, dopo aver compiuto un viaggio terribile per arrivare a Cracovia, dovessero intraprenderne un altro di mille chilometri («che si presentava come uno dei più scomodi nell’Europa del tempo») per recarsi a rendere omaggio al successore. Il cavallo all’epoca «costituiva di per sé un evidente segno di superiorità sociale». Un nobile, un ricco non potevano non sapere andare a cavallo. Tutto ciò che era collegato al nobile animale conferiva autorevolezza. Presso la corte degli Asburgo d’Austria «quella di maestro delle scuderie era una delle quattro maggiori cariche… che andarono consolidando la loro supremazia a partire dal Cinquecento». A Ferrara «quella di maestro di stalla era una carica così prestigiosa che conferiva il diritto di sedere alla mensa ducale». A Bruxelles, alla corte di Carlo di Lorena, governatore dei Paesi Bassi austriaci, il primo scudiere proveniva dall’alta nobiltà.
A parte ambasciatori e mercanti, a spostarsi furono soprattutto i re. Che batterono l’Europa in lungo e in largo, seguiti dalle loro corti. A volte per incontrarsi tra di loro. L’appuntamento più spettacolare, nel giugno del 1520, fu quello tra il re di Francia e il re d’Inghilterra nei pressi di Calais, posseduta dagli inglesi fin dal 1347. Francesco I ed Enrico VIII «si sfidarono a colpi di grandiose feste, giochi e tornei sullo sfondo di una scenografia mai vista». Poi il re d’Inghilterra, dopo essersi accomiatato da Francesco, andò ad incontrare l’imperatore Carlo V a Gravelines. E ogni sovrano aveva la propria corte al seguito. Fenomeno, quello delle «corti itineranti», che coinvolse l’intera nobiltà. In Spagna, i «re cattolici» si spostavano da una parte all’altra del loro Paese. In Francia la corte dei Valois, da Francesco I a Enrico III, «vagava da un castello all’altro». Benvenuto Cellini, al seguito di un viaggio di Francesco I, così scrive nella sua Autobiografia: «Noi andavamo seguitando la ditta Corte in tai luoghi, alcuna volta, dove non era dua case apena; e sì come fanno i zingani, si faceva delle trabacche di tele, e molte volte si pativa assai».
Celeberrimo fu il viaggio di 27 mesi compiuto da Carlo IX, non ancora quattordicenne, con la madre Caterina de’ Medici e 15 mila persone («una massa di uomini e donne superiore alla media di una città francese del XVI secolo»), che il 24 gennaio del 1564 partirono da Parigi per farvi ritorno il 1° maggio del 1566, dopo aver visitato l’intera Francia senza mai passare due volte dallo stesso posto. Su 829 giorni, 201 (oltre sei mesi) furono di spostamenti e 628 di sosta. In Italia lasciavano volentieri la loro città per andarsene in giro le corti estense (Ferrara), dei Gonzaga (Mantova) e quella medicea (Firenze). Tali viaggi duravano mesi, anni. La corte spagnola fu a lungo, nei fatti, senza fissa dimora, almeno fino a che, nel 1561, fu stabilita la capitale a Madrid. Con Carlo V si raggiunse il massimo della mobilità. Il numero dei giorni da lui spesi in viaggio, a partire dal 1517 fino alla sua abdicazione nel 1555, furono circa un quarto di quelli del suo regno. È stato calcolato che nel corso della vita abbia cambiato letto 3.200 volte («anche se per lo più si portava dietro il proprio»). Alla fine dei suoi giorni, ricordò di essere stato nove volte in Germania, sei in Spagna, sette in Italia, dieci nei Paesi Bassi, quattro in Francia, due in Inghilterra e due in Africa, «senza contare i tragitti più brevi». Per lui fu inventato un sistema di sospensioni che assorbiva urti e sbalzi, il «giunto cardanico» (dal nome del milanese Gerolamo Cardano, che per primo ne parlò in un libro). Ma quando, a cinquant’anni, si ritirò nel monastero di San Geronimo, aveva — per le conseguenze di tutti gli spostamenti — l’aspetto di un vecchio ottantenne. Terribili erano sì i viaggi, ma anche le soste. Ad ogni tappa, per i regnanti, erano grandi, lunghi, interminabili festeggiamenti. Talché Margherita d’Austria, quando, quindicenne, andò in sposa a Filippo III, fece emanare un dispositivo a norma del quale, «pour éviter le cérémonial», lungo il viaggio tra Francia e Spagna sarebbe scesa solo sulle spiagge a riposare e ad ascoltare la messa all’interno di tende allestite all’uopo. A evitare i ricevimenti, molti sovrani decisero poi di viaggiare in incognito. È il caso di Pietro il Grande che, tra il 1697, il 1698 e nuovamente nel 1717, fece, senza appalesarsi come zar, un lungo viaggio in Europa prima di prendere le redini della Russia e avviarla alla modernità. Anche Cristina di Svezia, dopo l’abdicazione nel 1654, uscì dal suo Paese vestita da uomo e con un gran cappello adorno di piume, proprio per evitare di essere riconosciuta e festeggiata. In incognito viaggiò il principe Cosimo de’ Medici in tutta Europa tra il 1667 e il 1669. Due anni in questo caso, ma a volte era necessario più tempo. A partire dal 1565-70 ci volevano in media cinque anni per l’andata e il ritorno fra la Spagna e le Filippine, attraverso il Messico e il Pacifico.
Il bagaglio che nobili e sovrani portavano con sé era imponente. Il marchese d’Oria, Giovanni Bernardino Bonifacio, fuggì dall’Italia nel 1557 per timore di essere perseguitato dalla Chiesa, vagò per quarant’anni in Europa portando con sé la sua collezione immensa di libri. Libri che uscirono danneggiati, ma salvi, dopo un naufragio all’ingresso del porto di Danzica e che il marchese, in segno di riconoscenza, lasciò in dono a quella città, la quale ancor oggi lo considera il fondatore della propria biblioteca. La perdita dei beni nel corso del viaggio era un rischio da mettere nel conto. Margherita di Navarra, che si spostava da Lione ad Avignone lungo il corso del Rodano, subì un naufragio nel corso del quale morirono 23 membri dell’equipaggio. Una lettera di Enrico III mostrava più preoccupazione per il vasellame d’argento che per gli esseri umani inghiottiti dal fiume.
Moltissimi si spostavano attraverso l’Europa per motivi religiosi. In principio ci si dirigeva a Roma, la città del Papa e della cristianità. Poi fu la volta del movimento dei viaggiatori in direzione della Terrasanta, movimento iniziato dopo la prima crociata con la conquista di Gerusalemme (1099). Ma il fenomeno acquistò dimensioni massicce a partire dal XIV secolo. La città che più se ne avvantaggiò fu Venezia, e però di questi movimenti alla volta di Gerusalemme godettero anche gli scali intermedi: Otranto, Creta e Cipro, nonché Jaffa, luogo dello sbarco. Negli anni si erano aggiunte altre mete religiose: i grandi santuari d’Italia, Francia e Spagna con la tomba dell’apostolo Giacomo a Compostela, il cui richiamo era iniziato già dal X secolo. I pellegrini si muovevano praticamente senza bagaglio e con un bastone a cui appoggiarsi. Esibivano contrassegni del luogo a cui erano diretti: la palma per Gerusalemme, la conchiglia per Santiago de Compostela, un’immagine della Veronica o di Pietro e Paolo per Roma.
Roma, che — come si è detto — era già stata raggiunta da pellegrini (i cosiddetti romei) fin dai secoli VII e VIII, era adesso ridiventata una delle mete principali di questo genere di spostamenti, dopo che nel 1300 Bonifacio VIII aveva voluto il primo giubileo. Nel Cinquecento, la divisione del mondo cristiano, scrive Rita Mazzei, «intervenne a modificare la tradizione medievale del pellegrinaggio». Tradizione su cui aveva pesantemente ironizzato Erasmo ne Il pellegrinaggio fatto per devozione (1526). Nelle Province Unite, «dove ogni manifestazione pubblica legata alla fede cattolica era proibita», gli Stati di Olanda nel 1587 «promulgarono un’ordinanza contro i pellegrinaggi». Alle critiche di Erasmo si erano aggiunte quelle ancor più dure di Lutero e Calvino. La Chiesa rispose «con una rifondazione dottrinaria del giubileo stesso, mirante a far coincidere pellegrinaggio fisico e itinerario spirituale». Il giubileo di svolta fu quello del 1575, dopo che già per i festeggiamenti del 1550 si erano mossi 60 mila pellegrini; ma fu solo nel 1600 che si tornò agli antichi fasti e nel 1650 di pellegrini a Roma ne giunsero ben 160 mila. Tra i luoghi da visitare dal Cinquecento si erano aggiunti Loreto (dove gli angeli, nel 1291, avrebbero trasferito dalla Terrasanta la casa della Madonna), Assisi, la città di san Francesco, e Bari, che ospitava le reliquie di san Nicola di Myra.
Se i pellegrini avevano con sé solo un bastone, ben più consistente era il bagaglio dei nunzi apostolici che in età di Riforma dovettero muoversi a ritmo incessante. Chi erano questi nunzi? Il papa Paolo III Farnese mise a punto un imponente apparato di rappresentanza diplomatica, imperniato sulla figura del nunzio. E, dopo il Concilio di Trento (1545-1563), i nunzi furono i cardini della nuova politica della Chiesa di Roma. Le principali sedi di nunziature furono quelle di Venezia, Firenze e Napoli, ma una presenza qualificata si ebbe in tutte le principali corti europee. Gli ambasciatori del Papa divennero figure fondamentali. Alla fine del Cinquecento, fu un nunzio che trattò con Enrico IV, divenuto re di Francia, al quale, nel 1595, Clemente VIII accordò l’assoluzione. Più consistente ancora il carico dei cardinali che ogni volta che si apriva un conclave dovevano precipitarsi a Roma, come si diceva, «a grandissime giornate», cioè ultra velocemente. Velocemente sì, ma senza mai separarsi dal loro imponente bagaglio. E non solo loro.
Un banchiere fiorentino che a metà Quattrocento operava alla corte papale, Tommaso di Lionardo Spinelli, portava con sé un altare portatile, benedetto da papa Niccolò V, che poteva essere usato per celebrar messa in ogni dove, purché il luogo fosse «acconcio». Il cardinale d’Aragona, in viaggio attraverso l’Europa alla viglia della Riforma, si faceva accompagnare dal proprio cuoco, ben rifornito di una scorta di olio di oliva. I santuari e Loreto divennero meta anche per i regnanti. Maria Maddalena d’Austria si recò a Loreto due volte, nel 1612 e nel 1616. In questa seconda occasione si fece accompagnare da oltre cinquecento persone, tutte vestite di turchino. Anche il granduca Cosimo III visitò ripetutamente i santuari della Toscana: Camaldoli, Vallombrosa, La Verna. Nel 1695 decise di spingersi a Loreto «con minor pompa possibile», cioè accompagnato «solo» da qualche centinaio di persone invece che da qualche migliaio. Il percorso era molto accidentato, talché al capo vetturino fu impartito l’ordine di punire chi avesse bestemmiato con «rigorosi castighi».
La Riforma fu un’importante spinta al movimento degli uomini. Ma aprì anche la via «al dispiegarsi nel continente di nuove frontiere di segno confessionale». L’intraprendere un viaggio «bastava a mettere in moto sospetti». Il contatto con l’Europa riformata fu ovviamente assai malvisto dalla Chiesa di Roma, «che vigilava là dove vi fossero elementi rilevanti di mobilità». Stiamo parlando, ad esempio, di una città di mercato, luterana, quale era Norimberga, e della presenza di «tedeschi» in città quali Bologna, Lucca, Firenze.
Altro mondo in movimento fu quello delle università. La costituzione «Habita», «concessa da Federico Barbarossa intorno al 1155 agli studiosi dell’impero su richiesta dei dottori in legge dell’Università di Bologna, permetteva a coloro che si facevano “pellegrini per amore degli studi” di viaggiare con uno status giuridico di garanzia; la mobilità degli studiosi faceva sì che le stesse università fossero istituzioni mobili». L’Università di Padova, che ebbe sempre più grande credito in tutto l’Occidente, venne fondata nel 1220 da studenti bolognesi che erano stati «attirati in quella città da varie facilitazioni». In generale, scrive Rita Mazzei, nel Cinquecento «si registrava una sostenuta accelerazione della tradizionale mobilità di studenti, pur con sensibili differenze tra una regione e l’altra d’Europa». Per rispondere «alle particolari esigenze formative dell’aristocrazia europea, nascevano specifiche fondazioni collegiali destinate a favorirla». Ma anche antiche istituzioni come il collegio dei Lombardi a Parigi (1334) o il collegio di Spagna a Bologna (1368) incoraggiavano «l’afflusso di studenti dalle aree più lontane ad una grande università di prestigio».
La disponibilità degli intellettuali, anche di grande autorevolezza, a «spostarsi senza troppi problemi su lunghe e lunghissime distanze», per raggiungere una corte, una famosa università, un centro tipografico, «vede coincidere la mobilità dell’uomo con la circolazione delle idee, e sostiene la fortuna della cultura umanistica e rinascimentale». Modello di questo tipo di intellettuale è Erasmo da Rotterdam, che viaggiò ininterrottamente per tutta l’Europa, comprese Parigi, Londra (dall’amico Tommaso Moro), Friburgo, Basilea, Venezia, Padova, Ferrara, Siena, Roma, Napoli per poi spegnersi a Basilea, dove era tornato per la seconda volta.
È in questo clima che, tra il 1550 e il 1600, cioè dopo la rivoluzione luterana, il Concilio di Trento e poco prima che scoppiasse, nel 1618, la guerra dei Trent’anni, si diffuse il fenomeno della peregrinatio academica, cioè l’abitudine a incessanti viaggi di studenti e docenti da un’università all’altra. Va aggiunto che ci fu anche qualcosa in più. La fine dell’unità religiosa dell’Europa, scrive Rita Mazzei, «comportò nel tempo una radicale riorganizzazione dei circuiti universitari sulla base di un ridefinito spazio politico e religioso che condizionava fortemente gli scambi culturali». Gli studenti si spostavano alla ricerca di sedi accademiche in cui fosse rispettato (o, quanto meno, tollerato) il loro credo religioso. L’Università di Basilea, fondata nel 1460 da Pio II, dalla metà del Cinquecento, entrata nell’orbita della Riforma, attirò sempre più studenti provenienti dall’Europa protestante (e sempre meno tra i fedeli alla Chiesa di Roma). Stesso discorso per gli atenei di Ginevra, Leida, Heidelberg. I giovani polacchi, rimasti fedeli al Papa, si orientarono verso altre università.
A spostarsi poi non furono solo gli uomini. I testi di riferimento non riservano molto spazio alle donne, «la letteratura di viaggio tratta della mobilità degli uomini e presuppone la stabilità delle donne». Ma le donne si muovono, eccome. Si spostano per lo più a seguito di padri e mariti. Ma con tassi di incremento che fanno riflettere. Il viaggio più avventuroso del Cinquecento è senza dubbio quello alla volta delle Americhe. Qui le donne sono, tra il 1493 e il 1539, il 6,2 per cento; tra il 1560 e il 1579 crescono addirittura al 28,5 per cento. La Chiesa osteggiava gli spostamenti femminili. Già dai secoli precedenti. C’è una lettera al vescovo di Canterbury del 747 in cui san Bonifacio deplora le troppe donne, religiose o meno, che si recano in pellegrinaggio a Roma, perché, scrive, «la maggior parte di loro soccombe e poche di quelle che ritornano conservano la loro castità».
Nell’Italia del Cinquecento sono molte le donne che emigrano per non subire persecuzioni. È il caso delle «non poche lucchesi, molte dai cognomi prestigiosi, che seguirono padri e mariti nella Ginevra di Calvino». Negli stessi ambienti riformati «la spinta religiosa fu essenziale a determinare una forma di mobilità femminile». Si ha notizia «di donne quacchere che nel Seicento se ne andavano in giro per il continente a fare propaganda anticattolica, incappando talora nelle maglie dell’Inquisizione». I casi sono molti. Celebre è quello di due inglesi, Katherine Evans e Sarah Cheevers, partite nel 1658 dal porto di Plymouth alla volta di Alessandria d’Egitto per poi recarsi, presumibilmente, a Gerusalemme. Le due fecero sosta a Malta dove, però, furono arrestate su ordine del Sant’Uffizio e tenute in carcere per tre anni e mezzo. Minacciate di tortura e di morte, «sottoposte a interrogatori, sostennero violente discussioni con i frati dell’Inquisizione… nel frattempo digiunavano, si ammalavano, lavoravano a maglia e di cucito e soprattutto pregavano, confortate da visioni divine e segni premonitori».
Ma ci sono donne che si muovono per motivi che non hanno niente a che fare con la religione. Una mobilità, afferma Rita Mazzei, che «nella forma più immediatamente visibile sembra riguardare soprattutto regine e principesse in viaggio per raggiungere i regali mariti, donne di illustre lignaggio o di facoltose famiglie mercantili che potevano affrontare itinerari più o meno lunghi con il meglio degli agi e delle comodità che il tempo consentiva». Oppure le mogli di artisti. Come Agnes Frey, consorte di Albrecht Dürer, che, con la giovane cameriera Suzanne, segue il marito nel 1520-21 a Colonia, Anversa, Bruxelles.
Va rilevato come le città costituiscano le tappe essenziali di questi percorsi. Ciò che c’è lungo il tragitto tra un centro abitato e un altro quasi non esiste o comunque è menzionato assai poco in diari e memorie. Nessuno dei partecipanti al viaggio che nell’inverno del 1573-74 portò Enrico di Valois, fresco re di Polonia, dalla Lorena a Cracovia attraverso il Palatinato, la Sassonia, il Brandeburgo per oltre 1.500 chilometri, «ci dà, nei tanti resoconti che abbiamo, qualche specifico dettaglio relativo al territorio, al di là dell’osservazione che si procedeva ininterrottamente attraverso un paese piatto, senza vedere per giorni e giorni che neve e ghiaccio». Neve e ghiaccio che si trasformano presto in un’opportunità. Le slitte, meglio dei carri, «facilitavano gli spostamenti nella stagione invernale in una terra di foreste e di zone paludose come la Polonia-Lituania, un territorio immenso, esteso per più di ottocentomila chilometri quadrati nella seconda metà del secolo XVI e per circa un milione di chilometri quadrati nella prima metà del secolo XVII».
Ne rimaneva «non poco impressionato un ambasciatore di Caterina de’ Medici al quale, quando fu spedito in gran fretta nel 1572 a saggiare il terreno in vista della candidatura francese al trono polacco, la superficie appariva ad occhio come due volte quella della Francia». La neve consolidava il terreno e, proprio grazie alle slitte, l’inverno era la stagione migliore per spostarsi. In quegli spazi immensi «rinascevano il lavoro, il commercio, la sociabilità e perfino la politica, come stanno a confermare le tante relazioni dei viaggiatori settecenteschi che ne riferiscono stupiti». E così la seconda «piccola era glaciale» (1570-1630), che «comportò un’alterazione peggiorativa delle condizioni climatiche in Europa con inverni lunghi e rigidi ed estati relativamente fresche e umide, fra le molte conseguenze potrebbe aver avuto anche quella di favorire al Nord e all’Est questo sistema di trasporto».
Nella seconda metà del Cinquecento si affermò prima in Italia e poi in Francia e in Inghilterra l’uso delle carrozze «riservate in un primo tempo ai prìncipi, agli aristocratici e ai ricchi borghesi, con una specifica utilizzazione soprattutto da parte delle loro mogli e delle loro figlie, e il possesso di uno o più esemplari divenne presto la misura delle disponibilità economiche, del rango e della rilevanza sociale… divennero in breve un tangibile segno di potere». Le carrozze, osserva Rita Mazzei, «furono una delle grandi novità del secolo XVI, e provocarono una profonda trasformazione nella circolazione e nei rapporti umani; si imposero ovunque, dilagando come una delle più appariscenti forme di lusso». Le prime furono una «conquista urbana» e fecero la loro apparizione nelle città italiane. A Roma «verso la fine del secolo se ne contavano diverse centinaia, nel 1594 fra cocchi e carrozze pare si arrivasse alla bella cifra di 883 mezzi, ripartiti fra 675 proprietari». Qualcuno ne aveva dunque più di una. Diceva Carlo Borromeo che per avere successo nella città santa erano necessarie due cose: amare Dio e avere una carrozza.
Carrozze e diligenze si moltiplicano poi nel Settecento, il secolo del Grand Tour: coupés, calessi, phaétons, cabriolets, berline che (inventate a Berlino nel 1663) divennero le vetture più apprezzate dalla nobiltà. Di termini per identificarle se ne contava adesso una ventina. Di lì a un secolo saranno oltre cento. Dapprima furono amate (per esempio dal cardinal Mazzarino) quelle di costruzione italiana. Poi fu la volta dei modelli francesi, di quelli inglesi. Al tempo del suo viaggio a Roma ed in Sicilia (1786-87), Goethe sosterrà che, in materia di carrozze, l’Italia era «rimasta enormemente indietro rispetto agli altri Paesi per tutto ciò che è meccanica e tecnica». Già, la meccanica e la tecnica. Adesso quei veicoli si potevano smontare e rimontare. Riferisce Montesquieu nel suo Viaggio in Italia (1728-29) che sul Moncenisio una carrozza veniva trasportata sul dorso di tre muli. Uno portava il corpo, l’altro le ruote, il terzo le stanghe. Sul Sempione, invece, il corpo della carrozza veniva trasportato da braccia umane, dal momento che la strada era troppo stretta perché si procedesse alla maniera descritta sopra. Il mulo diventa sempre più un grande protagonista di questi spostamenti. Nell’Europa del Cinquecento la richiesta cresce a dismisura, tanto che Fernand Braudel calcola che solo nella Spagna ve ne fossero già allora più di un milione.
In età umanistica conobbero grande fortuna mete che erano già state famose nell’antichità: i bagni termali. Fa testo una celebre lettera del 1405 di Coluccio Salutati a Leonardo Bruni, in cui si descrive questa nuova moda. Un secolo e mezzo dopo quella lettera, nel 1553, l’editore Tommaso Giunti pubblicò a Venezia il De balneis omnia quae extant apud Graecos, Latinos et Arabas. Era un’antologia, la prima, «che metteva insieme oltre settanta testi classici, medievali e moderni, sulle terme, tutti in lingua latina, sia medico-scientifici sia letterari». E che proponeva come modello i bagni di Plombières, ai confini tra la Lorena e la Germania. Assai apprezzati nel tempo divennero i bagni di Karlsbad (Karlovy Vary), in Boemia, «che potevano vantare i privilegi ricevuti alla fine del Trecento dall’imperatore Carlo IV di Lussemburgo, il quale aveva fondato quell’insediamento dandogli il suo nome». Lì avrebbero soggiornato per qualche settimana Albrecht von Wallenstein nel pieno della guerra dei Trent’anni; l’imperatore Giuseppe I che, nel 1707, la elevò al rango di città libera; Johannes Sebastian Bach; Pietro il Grande, che a quei tavoli intavolò conversazioni con il filosofo Gottfried Wilhelm Leibniz. Non meno famosi furono i bagni di Baden, quelli inglesi di Bath e quelli italiani della Villa (Lucca) celebrati da Montaigne, che solo nel 1581 vi soggiornò due volte per ben undici settimane.
A Parigi nel 1552 viene data alle stampe la Guide des Chemins de France di Charles Estienne, prototipo delle guide tascabili. Un medico bergamasco, divenuto calvinista a Basilea, pubblicò nel 1561 la prima guida moderna. Quasi una guida pratica, scrive Rita Mazzei, «in un piccolo formato, tascabile si potrebbe dire, senz’altro comodo da portare con sé». Raccoglieva «tutte le informazioni disponibili sui principali itinerari, le vie alternative e le distanze da percorrere, ma offriva anche raccomandazioni di carattere igienico-sanitario e una serie di consigli pratici, frutto dell’esperienza accumulata negli anni dal suo autore. Uno dei più famosi trattati sull’arte del viaggio, la Methodus Apodemica dello svizzero Theodor Zwinger, fu pubblicato, sempre a Basilea, nel 1577. Ma l’interesse per questo genere di pubblicazioni e per le riflessioni che le caratterizzavano non era molto alto. Tra il 1580 e il 1581 Michel de Montaigne scrisse il celeberrimo Journal de voyage en Italie, che restò però dimenticato per 200 anni nell’archivio del suo castello e fu edito nel 1774.
Il Settecento fu infine il secolo dell’Illuminismo e del Grand Tour, che, soprattutto dopo la pace di Hubertusburg che segnò la fine della guerra dei Sette anni (1756-1763), portò i giovani delle migliori famiglie (inglesi, francesi, tedeschi, olandesi, scandinavi, russi) soprattutto in Italia (Roma, Firenze, Venezia, ma anche Napoli e la Sicilia) sulle tracce dell’antichità. Franco Venturi ha fatto osservare come questi stranieri vennero a contatto con l’Italia nel secolo, il Settecento, più sfortunato della nostra storia per «sgretolamento politico, depressione economica, delusione intellettuale». Ciò che generò in giovani come Gibbon, Goethe, Rousseau, Montesquieu notevoli pregiudizi nei confronti delle nostre città. Ma questi viaggiatori fecero ricchi i nostri mercanti d’arte, che, soprattutto a seguito dell’inizio degli scavi a Ercolano (1738) e Pompei (1748), conobbero grande fortuna. Anche se qualcuno, come Gustavo III di Svezia sceso in Italia in incognito nel 1783 celandosi dietro il nome di conte di Haga, cominciava ad essere vigile contro il rischio di truffe. Tanto che il suo agente in Italia, il giovane Francesco figlio di Giambattista Piranesi, mise in burla la sua volontà di studiar bene ciò che forse avrebbe poi comprato: «Il conte di Haga che molto vede e poco paga», scrisse del re di Svezia.
A far finire (o, comunque, modificare radicalmente) questa lunga stagione fu la Rivoluzione francese, ma soprattutto furono le guerre napoleoniche. La campagna d’Italia del giovane Napoleone Bonaparte (1796) e le successive guerre, scrive Rita Mazzei, «paralizzarono l’intero continente e segnarono la fine di quell’avventura che nel corso dei secoli aveva contribuito a formare la coscienza intellettuale dell’Europa moderna». Quando, dopo il Congresso di Vienna (1815), si riprese a viaggiare, nulla fu più come prima. Nel libro ci si limita alla presa d’atto della cesura intervenuta tra il 1789 e il 1815. Ma è probabile che da questo spunto vengano fuori riflessioni di una qualche originalità e di un qualche interesse.


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