DIRITTO D’AMORE. PERCHÉ I SENTIMENTI SFUGGONO ALLE REGOLE

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Nel 1943, nella Roma occupata dai tedeschi, uno dei maggiori giuristi del tempo, Filippo Vassalli, distoglie per un momento lo sguardo dal “tramonto sanguigno della nostra civiltà” e si dedica a un piccolo e raffinato libro nel cui titolo, inattesa, compare la parola “amore”. Inattesa, perché rompe la sequenza dei riferimenti a categorie giuridiche che vogliono ridurre il rapporto amoroso a un potere proprietario sul corpo del coniuge. E perché impone l’attenzione per quella che può apparire come una relazione impossibile – quella tra amore e diritto.
Nel definire la vita, Michel de Montaigne ne aveva parlato come di “un movimento ineguale, irregolare, multiforme”. Qualcosa, dunque, che per la sua intima natura si presenta irriducibile alle esigenze di un diritto che parla invece di eguaglianza, regolarità, uniformità, dunque di astrazioni che non tollerano l’imprevedibile, il volubile, la sorpresa. Lo stesso può dirsi dell’amore, che consegna alla vita il massimo di soggettività, la immerge nelle passioni, nell’intimo di motivi che la regola giuridica non può e non vuole cogliere, perché intende parlare il linguaggio della ragione e non dei sentimenti. Ancora una volta le ragioni del cuore che la ragione non può comprendere?
Forse il tentativo più intenso di sfuggire a questa logica conflittuale può essere cercato in un poema di W. H. Auden, Law Like Love, dove un tratto comune è ritrovato nel fatto che, quando il diritto viene considerato dal punto di vista della singola persona, diviene anch’esso legato ad una vita che lo rende indefinibile in termini astratti, appunto come l’amore. Un paradosso poetico o una indicazione di cui profittare?
Nell’esperienza storica, il diritto ha variamente definito un perimetro chiuso, l’unico all’interno del quale l’amore può essere considerato giuridicamente legittimo – il rapporto coniugale. In questo perimetro viene poi operata una seconda riduzione, riportando il rapporto tra i coniugi a uno schema patrimoniale, che vede il coniuge proprietario del corpo dell’altro coniuge o creditore di prestazioni sessuali.
Viene così costruito uno spazio giuridico recintato, governato dalla ragion pubblica e dall’autorità maschile, nel quale l’amore è sostituito dalla gerarchia, con il marito “capo della famiglia”. Si perdeva così il senso delle parole di Paolo nella prima Lettera ai Corinzi: «la moglie non ha potere sul suo corpo, ma il marito. Allo stesso modo non è il marito ad avere potere sul proprio corpo, ma la moglie». In questo reciproco possesso era fondata l’eguaglianza tra i coniugi, che morale religiosa e regola giuridica poi tenacemente contrasteranno, in un contesto fatto di diffidenze, se non di ostilità, di limiti imposti dal buon costume e dall’ordine pubblico, con barriere invalicabili per un diritto riconducibile all’amore.
Sul testo più rappresentativo della modernità giuridica, il codice civile francese del 1804, non soffia lo spirito di Olympe de Gouges e della sua Dichiarazione dei diritti delle donne e delle cittadine che, in nome del “sesso superiore per bellezza e coraggio”, si apre proclamando che “la donna nasce libera e rimane eguale all’uomo per quanto riguarda i diritti”. Al contrario, in quel codice il diritto di famiglia è impregnato delle “turcherie” di Napoleone che, all’epoca della campagna d’Egitto, era stato colpito dal modo in cui il diritto islamico regolava i rapporti tra donna e uomo. E il linguaggio del suo codice non potrebbe essere più eloquente: «il
marito ha il dovere di proteggere la moglie, la moglie di obbedire al marito». Un modello che si diffonderà oltre i confini francesi, troverà accoglienza nella legislazione italiana, con una minuzia di prescrizioni che allargherà ancora di più il fossato tra amore e diritto.
Obbedienza e subordinazione, logica autoritaria e patrimonialistica, senza spazio per gli affetti. Certo, le donne non perdono il potere domestico, “il potere delle chiavi”, a condizione di rimanere nel triangolo che la tradizione tedesca indica con le tre K di “Kinder, Kuche, Kirche” (bambini, cucina, chiesa). E rimane il potere di influire sulla sfera pubblica grazie a quella che, sempre Olympe de Gouges, ha chiamato «l’administration nocturne des femmes ».
Oltre questi confini il diritto fa comparire l’amore con i segni della stigmatizzazione sociale e della sanzione penale. Reato l’adulterio; “figli della colpa” quelli nati fuori del matrimonio; repressione della sessualità femminile; negazione dell’identità omosessuale; irrilevanza delle unioni di fatto. Ci imbattiamo così in un “amore fuori legge”..
Sono queste le ripide mura da scalare per costruire una cittadinanza giuridica per l’amore. Per ciò il diritto deve ritirarsi progressivamente da molti degli spazi che aveva occupato. E quindi: libertà attraverso il divorzio al posto del matrimonio indissolubile; eliminazione dell’adulterio come reato; riconoscimento della libertà sessuale attraverso il legittimo ricorso alle tecniche anticoncezionali e alla interruzione della gravidanza; e, soprattutto, riforma del diritto di famiglia, che nel 1975 sostituisce il modello gerarchico con quello paritario, fondato sugli affetti, e riconosce i diritti dei figli nati fuori del matrimonio. Al posto della norma costrittiva troviamo la volontà delle persone, libere di costruire la loro vita e l’insieme delle relazioni, non più chiuse nel perimetro obbligato del matrimonio. Scompaiono l’impropria identificazione tra peccato e reato e il peso di una morale di cui il diritto si faceva custode, in una visione pubblicistica che vincolava le persone non alla realizzazione dei sentimenti, ma alla stabilità sociale e alla continuazione della specie.
A fondamento di questo rinnovato modo di guardare alle persone troviamo il riconoscimento dell’eguaglianza, la logica dei diritti fondamentali, la scoperta del corpo. Qui è visibile l’influenza dal pensiero femminista, ineliminabile presenza critica. La centralità del corpo ridisegna il tema dall’identità,
propizia la rilevanza costituzionale del riferimento alle “tendenze sessuali”. L’amore non è sciolto da tutti i vincoli, non è “il libero amore” associato ai momenti rivoluzionari. Ma l’aver liberato la vita affettiva da una serie di obblighi coatti, l’aver attribuito un ruolo centrale alla volontà delle persone, l’aver messo al centro dell’attenzione i dati di realtà e non solo le categorie giuridiche, sono i fondamenti di un diverso rapporto tra amore e diritti.
Non siamo approdati ad una situazione pacificata. Forse la questione che meglio esprime tensioni e opportunità è quella del matrimonio tra persone dello stesso sesso, ormai centrale nel dibattito pubblico e nella legislazione di un numero crescente di paesi, con una Italia che arranca, prigioniera ancora di quella che Martha Nussbaum ha definito “la politica del disgusto”. Ma dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea viene una indicazione ineludibile: matrimonio e altre forme di convivenza sono messe sullo stesso piano, e scompare il riferimento alla diversità di sesso.
Resi sempre meno costrittivi i vincoli giuridici, e accresciuta la possibilità per le persone di utilizzare modelli diversi nei quali riversare il loro desiderio d’amare, possiamo dire che siamo di fronte ad un amore “a bassa istituzionalizzazione”. Questo non fa certo scomparire un riferirsi all’amore come travestimento del narcisismo, addirittura come giustificazione della pretesa violenta di mantenere il possesso del corpo del partner. Ed è pure vero, come sottolinea Silvia Vegetti Finzi, che «in un mondo incerto manca all’amore una cornice sociale che lo confermi e lo stabilizzi». Sociale, appunto, sì che sarebbe un vano e pericoloso rifugiarsi nel passato esigere di nuovo un diritto che si impadronisca della vita delle persone.


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