Un’alternativa in cerca di autori

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Quando le lotte esplodono nei Brics. Allargando la definizione giornalistica a un paese come la Turchia, è questo il tema posto dalla «Comune di Gezi» e il movimento del passe livre in Brasile. Se il concetto di ciclo non è più utilizzabile nei termini classici, né dal punto di vista economico né da quello delle lotte, è però possibile parlare di un ciclo della soggettività delle lotte nella crisi? Quali sono tratti comuni e differenze rispetto alle insorgenze in Nord Africa, le acampadas o Occupy Wall Street? Comincia da qui la conversazione con Michael Hardt, autore con Toni Negri del noto trittico Impero, Moltitudine e Comune.

«Aggiungendo Turchia e Brasile alla catena di lotte cominciate nel 2011, si mettono in evidenza almeno due cose. In primo luogo, vi è una continuità nell’affermazione del comune della metropoli. A Gezi e nelle città brasiliane le lotte sono certamente anti-neoliberali, ma anche contro lo Stato, cioè contro il pubblico. Il progetto del governo turco di fare un centro commerciale con la forma di un forte militare del vecchio impero – che combinazione orrenda! – mostra che non c’è differenza tra pubblico e privato. Gezi, dunque, è anche l’affermazione del comune della città contro il privato e il pubblico. Nel caso brasiliano si può dire più o meno lo stesso. Questa è la continuità. L’elemento molto differente è, invece, il fatto che Turchia e Brasile sono società non in crisi economica. Abbiamo pensato i movimenti del 2011 nel quadro della crisi, mentre ora ci troviamo di fronte a lotte dentro economie in espansione. Non so ancora quali siano le conseguenze, però una lotta per la liberazione è in generale molto più potente e creativa in un momento non di crisi bensì di espansione sociale, come è avvenuto nel ’68. Ciò rende molto interessante anche pensare a cosa viene dopo».
In Turchia, come sostieni, e forse ancor di più in Brasile le lotte prendono corpo in una situazione per certi versi rovesciata rispetto a quella europea e americana: non c’è recessione ma crescita. È forse innanzitutto la crisi di un modello di sviluppo e delle promesse di progresso a esso storicamente legate….
In crisi è innanzitutto il modello di una modernizzazione a lungo termine. In crisi è anche il modello della sinistra, ormai finito, infatti le lotte stanno tentando di andare oltre. Si pone allora un’altra questione: tocca a noi articolare un’idea di altersviluppo. Si potrebbe avere una posizione anti-sviluppista, a me sembra invece che la scommessa stia nell’elaborazione di un’idea di sviluppo alternativo. In negativo è chiaro: l’altersviluppo non è definito dalla crescita economica, nel senso della produzione quantitativamente maggiore di merci. Rimane il problema di come elaborare l’altersviluppo in positivo. Nella formazione del vostro e nostro progetto – Commonware – sarebbe utile approfondire la questione e iniziare ad articolare un’idea di sviluppo.
Molti commentatori parlano di «movimenti del ceto medio», senza tener conto che quel ceto medio è – almeno in Europa e Nord America – ormai precarizzato e «impoverito». Nella crisi che hai descritto, il ceto medio – per esempio in Brasile – sembra nascere già declassato, è immediatamente, come sostengono altri studiosi, proletariato cognitivo metropolitano. Cosa ne pensi di questa lettura dei movimenti sociali?
Non avviene solo in Brasile, ma anche per almeno una parte delle forze ribelli in Tunisia ed Egitto. Quando pariamo di un ceto medio declassato la lotta nasce dalla rabbia del perdere ciò che si aveva; invece, in queste società vedo una speranza frustrata. In Brasile, almeno per una parte della gioventù intellettualizzata, c’è una nuova e grandissima capacità, che però è bloccata. Quando prima evidenziavamo la differenza delle lotte in una società in crescita, la questione diventa centrale dal punto di vista della soggettività. Pensiamo ancora al Sessantotto: in Europa occidentale, in Cecoslovacchia, negli Stati Uniti, in Giappone, in Messico e in altri paesi c’era un’espansione soggettiva che abbatteva gli ostacoli della vecchia società. È quello che vedo nelle capacità intellettuali, soprattutto metropolitane, in Brasile: ci sono nuovi orizzonti bloccati da una vecchia società, con il suo governo e la sua ideologia di modernizzazione.
Rispetto a questa dimensione soggettiva in espansione, in che modo sono verificati o modificati i quattro tipi di soggettività che tu e Toni Negri avete individuato nel libro Questo non è un manifesto: l’uomo indebitato, l’uomo mediatizzato, l’uomo securizzato, l’uomo rappresentato?
Credo che queste tipologie funzionino anche in queste società. La questione del debito assume forme differenti, ma non lontane da quanto avviene nel nord del pianete. Per questo penso che la figura dell’«uomo indebitato» funzioni. La questione della sicurezza, come disciplina di sorveglianza, è invece abbastanza ovvia. Il tema della rappresentanza è il più importante, è forse la continuità più forte: non solo dal 2011, ma fin da Seattle vi sono sperimentazioni di forme partecipative contro la rappresentanza. O, per dirla in altra maniera, per reinventare il concetto di leadership. A livello di semplificazione tale attitudine è riassunto dallo slogan: «non vogliamo leader». Al contempo dobbiamo tuttavia trovare una reinvenzione del concetto di leadership, o per dirla in termini semplici di una leadership della moltitudine. Il modo in cui criticherei questi quattro tipi di soggettività è nei loro limiti, cioè non bastano. Dovrebbero essere aggiunte altre soggettività che abbiamo pensato in questi anni, come il precario o lo sfruttato.
La soggettività dell’«uomo indebitato» andrebbe pensata in combinazione anche con la questione generazionale. In Brasile, per esempio, i giovani protagonisti delle lotte sono cresciuti nell’era Lula, in una società per certi versi post-neoliberale, o comunque si sono socializzati immediatamente dentro le promesse di espansione di cui parlavamo. In questo contesto, e il discorso può valere anche per la Turchia, il debito è soprattutto rispetto a quella promessa di progresso, oltre che come indebitamento morale nei confronti della famiglia. Se questo tipo di analisi funziona, i movimenti sono anche una rivolta contro questo tipo di assoggettamento attraverso il debito. Cosa ne pensi?
È un’analisi interessante che cambia il concetto di debito. Lo articola meglio, fino a usarlo per sipegare cose diverse. In questa accezione, il debito non è solamente una questione monetaria, ma anche una forma sociale. Tuttavia, vanno articolate anche le differenze, per meglio capire gli elementi comuni. A livello monetario, ad esempio, il debito è differente nei vari paesi: in Africa occidentale c’è poco debito individuale, mentre il debito statale costringe tutti entro vincoli precisi. Se il concetto di debito funziona come filo conduttore tra le diverse lotte, bisogna modularlo per ogni società in maniera diversa. Qualcuno potrebbe allora dire che non è utile come concetto generale, io non credo: proverei invece a pensare il debito proprio in modi differenti e al tempo stesso come un filo conduttore.
Spesso viene affermato che i movimenti sociali e i conflitti che agiscono sono sono straordinari nella loro forma destituente e faticano o si bloccano nella loro forma costituente. Torna un problema di potere, oggi completamente da ripensare. Come ripensare allora il nesso tra forma destituente e costituente?
La questione è centrale e i conflitti non forniscono ancora una risposta. È chiaro che adesso la cosa principale è sviluppare, creare e inventare un potere costituente. Dire comune e gestione del comune indica una guida concettuale, ma non afferma ancora niente all’altezza di una nuova forma. Pensare alla questione della soggettività invece che alla governance aiuta, perché le lotte sono già capaci non solamente di distruggere dispositivi di produzione di soggettività cattiva della crisi, ma anche di creare nuove soggettività. Questa è una strategia per non essere depressi: dobbiamo allora spostare il punto di vista alla questione della soggettività e riconoscere in che maniera una soggettività alternativa è già in produzione. Bifo ha spesso criticato sia i no global che le nuove lotte sostenendo che nel Sessantotto c’è stata una rivoluzione nei modi di vita e nelle soggettività sociali. Anche nel Sessantotto non è stata concepita una strategia costituente, però si è trattato di una nuova prospettiva sociale e di una nuova soggettività. Ecco, forse questo è già un risultato delle lotte attuali. Affinché dopo l’euforia delle lotte non arrivi la depressione, forse dobbiamo proprio cambiare punto di vista.
Torniamo alla questione dello sviluppo. In Comune, con Toni Negri avete criticato la dialettica tra modernità e anti-modernità per individuare le linee genealogiche di un’altermodernità. Seguendo quella griglia concenttuale, emerge la necessità di mettere a critica tanto la tradizione «sviluppista» della sinistra, quanto il suo opposto speculare, cioè un anti-sviluppismo che ha assunto le sembianze della decrescita. La sfida è dunque come pensare e praticare forme di organizzazione e sviluppo, o altersviluppo, fondate sul comune e sulla produzione di soggettività nel comune?
È una sfida difficile. Effettivamente la questione dello sviluppo è parallela al gioco tra modernità e anti-modernità. Non siamo in pochi a essere insoddisfatti sia con il modernismo sviluppista ed estrattivista, sia con le proposte della decrescita. In America Latina, almeno nella mia esperienza, si pone questa necessità e anche la difficoltà di soddisfarla. Io non sono completamente convinto che quello di Lula sia stato un governo post-neoliberale, neanche per i governi cosiddetti progressisti in America Latina è stato facile abbandonare il neoliberalismo. Non dico certo che Lula o Chávez fossero dei neoliberali nascosti, il punto è che il compito di inventare un altro modello, altersviluppista, è difficile.
Forse potremmo dire che il governo Lula o altri governi latinoamericani erano ambigui, con elementi di continuità neoliberale e aperture alle istanze costituenti dei movimenti. Le lotte in Brasile sembrano essere basate su questa ambiguità, rovesciata in potenza espansiva della nuova composizione di classe…
Mi sembra un buon punto di vista per capire la forza e l’origine delle mobilitazioni dentro questa ambiguità. Allora, storicamente dobbiamo pensare sia Lula che Chávez come momenti di transizione irrisolta. Le lotte perciò si collocano all’interno di questa transizione irrisolta.

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SCAFFALI

Dall’Americalatina al cuore dell’Impero

Il percorso intellettuale di Michael Hardt inizia con gli studi in ingegneria. Finito il college, lavora per alcune imprese specializzate in energia solare. Lavoro che lo porta a collaborare con alcune Ong e a fare la spola tra gli Stati Uniti e l’America Latina. È solo alla metà degli anni Ottanta che Hardt si laurea con una tesi di letteratura comparata. Dopo il dottorato, inizia la sua attività di ricercatore alla Duke University (dove tutt’ora insegna). Agli inizi degli anni Novanta pubblica un saggio sulla filosofia di Gilles Deleuze. Negli anni Novanta comincia la sua collaborazione con Toni Negri. Pubblicano insieme «Il lavoro di Dioniso» (manifestolibri). Poi, con Paolo Virno, cura il volume «Radical Thought in Italy». Con Negri pubblica «Impero» (Rizzoli), «Moltitudine» e «Comune» (sempre per Rizzoli). Lo scorso anno è stato infine pubblicato il volume, scritto sempre con Negri, «Questo non è un manifesto» (Feltrinelli).

L’intervista è pubblicata anche nel sito: wwww.commonware.org


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