Un digiuno contro la rassegnazione

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L’iniziativa si muove su due piani: uno religioso e popolare e l’altro diplomatico. È la caratteristica dei grandi interventi di pace vaticani, come fece Giovanni XXIII con la crisi di Cuba del 1962 oppure papa Wojtyla per le crisi balcaniche e l’Iraq. Papa Francesco chiama il «popolo» cattolico alla preghiera e al digiuno. Non solo i cattolici, ma tutti. Lo abbiamo visto ieri in piazza San Pietro e in tante chiese del mondo. Non è un fatto da poco nel vuoto di sensibilità generale al dramma siriano. A differenza delle crisi precedenti, gli europei sembrano rassegnati all’irrilevanza. Non solo i governi, ma le società civili. Nel 2003 ci furono folte manifestazioni contro la guerra all’Iraq. Oggi gli europei tacciono, un po’ presi dalle loro crisi, un po’ convinti di non poter far nulla. L’interesse per le grandi questioni internazionali è sfumato. Anche la sinistra, in genere attiva sulla pace, non ha avuto capacità di mobilitazione. L’introversione europea coinvolge trasversalmente tutti gli ambienti.
È quello che Francesco non accetta: l’impotenza e la rassegnazione di fronte al tanto sangue versato, più di centomila morti, due milioni di rifugiati, il Libano in crisi. Soprattutto pesa l’assenza di prospettive di pace. Da uomo di fede, papa Bergoglio crede che la preghiera «sposta le montagne»: come dice il Vangelo, certi demoni si scacciano solo con la preghiera e il digiuno. Per la Chiesa la guerra è un demone terribile. Lungo il Novecento i Papi non si sono mai rassegnati alla logica del conflitto, prendendosi di tempo in tempo gli insulti delle varie parti inebriate di bellicismo. Con l’iniziativa di ieri, Francesco chiama i cattolici (e non solo) a risvegliarsi dal torpore: rifiuta la soluzione, impossibile peraltro, delle armi, ma respinge anche l’indifferenza. Non si può essere spettatori.
Qualcuno ha affermato che il protagonismo vaticano abbia una coloritura antiamericana, perché sorto in contrasto all’intervento punitivo degli Stati Uniti in Siria. Dopo Benedetto XVI che riceveva Bush nei giardini vaticani con uno strappo al protocollo, sarebbe l’ora di un Papa latino-americano freddo con il gigante statunitense: mi pare una lettura sbagliata. L’intervento papale sulla Siria è il debutto internazionale di papa Francesco (che non ha una storia da diplomatico), dopo qualche mese di transizione del papato. Coincide infatti con la nomina del segretario di Stato, Pietro Parolin, noto come un ottimo sacerdote e un fine negoziatore, collegato alla tradizione dei cardinali Casaroli e Silvestrini. Francesco è sceso nel teatro internazionale con toni «profetici» spinto da un dramma di grandi proporzioni: «C’è un giudizio di Dio e anche un giudizio della storia sulle nostre azioni a cui non si può sfuggire! Non è mai l’uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza!».
La Santa Sede ha imboccato parallelamente all’intervento pubblico anche la via della diplomazia. Vari governi, in tempo di restrizioni, si interrogano sull’utilità delle ambasciate in Vaticano. Si sono accorti, in questi giorni, che Roma può essere un crocevia. I diplomatici vaticani hanno spiegato la loro visione a tutti gli ambasciatori, invitando i Paesi minori a non essere assenti, perché c’è anche un loro ruolo. Il Papa ha inteso però inchiodare i grandi Paesi alle loro responsabilità. La lettera a Putin (presidente del G20, ma anche grande protettore di Damasco) è un testo diplomatico, anche se alla fine si nota una irrituale richiesta al presidente «di pregare per me». Putin è un cristiano ortodosso e i legami tra la nuova Russia e il patriarcato di Mosca sono stretti. I russi ortodossi sono tradizionali amici dei cristiani ortodossi siriani.
Bergoglio chiede al G20 di «non restare inerti di fronte ai drammi». Indica il negoziato per sbloccare lo stallo da guerra fredda: Stati Uniti da una parte e, dall’altra, Russia e altri. Giustamente Enrico Letta ha valorizzato a Mosca il messaggio del Papa, non per ossequio, ma perché suggerisce una via d’uscita, che salva l’onore di tutti: i russi che non vogliono perdere la Siria e gli Stati Uniti. Una postura da guerra fredda (senza più due Stati-leader) è anacronistica: un modo surreale di vivere nel mondo multipolare. Infatti l’attuale stallo è tipico di una comunità internazionale, ricca di rituali, bloccata nell’incapacità di gestire i conflitti, ma anche a rischio di conflagrazioni più grandi. Francesco non è indulgente verso le lentezze delle nazioni: «senza ulteriore indugio» è il suo invito chiave. Il tempo non è una componente irrilevante. Farlo passare vuol dire lasciare incancrenire il conflitto. Ma anche versare sangue. «Salvare» il sangue è decisivo per chi sente il valore di ogni vita umana. C’è la necessità di una tregua per salvare le vite e coinvolgere le parti (interne e esterne alla Siria) sulla via del negoziato.


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