Nella terra desolata di Fukushima
DI RITORNO DA FUKUSHIMA. All’orizzonte, dove termina la terra ed inizia il mare, c’è una sola casa. Le sue pareti, sebbene sgretolate in più punti, hanno resistito alla furia delle onde di quell’11 marzo 2011 quando lo tsunami, che nessuno, qui a Fukushima, dimenticherà per molte generazioni, ha investito centinaia di chilometri di costa del Pacifico giapponese. Prima, attorno a questo rudere miracolosamente sopravvissuto alla furia della natura, c’era un intero villaggio. Ora, delle abitazioni non sono rimaste che le fondamenta e qualche pezzo di asfalto da cui si contorcono dei guardrail, come a voler testimoniare il dolore di quel giorno. Poco distante, un’enorme distesa di sacchi neri numerati raccoglie migliaia di metri cubi di terreno contaminato. È uno dei tanti siti di stoccaggio del suolo dragato dalle ruspe per cercare di eliminare gli elementi radioattivi che continuano a fuoriuscire dai tre reattori della centrale nucleare Dai-ichi (Numero uno) di Fukushima. La terra, raspata fino a 20 centimetri di profondità, è conservata in attesa di poter essere trattata e purificata. Quando e come, nessuno riesce a spiegarlo. Dalla parte opposta della collina le torri di raffreddamento dell’altro impianto nucleare, il Dai-ni (Numero due), si ergono poderose sulla pianura sottostante, quasi a sbeffeggiare la centrale gemella colpita a morte dalle onde del mare. Tutto attorno, decine e decine di chilometri quadrati di terra sono ormai inutilizzabili non solo a causa della radioattività, ma anche dall’alto contenuto salino depositato dall’acqua marina che ne ha inaridito, come una moderna Sodoma, la fertilità.
«La zona in cui è vietato abitare e coltivare non è, come si potrebbe pensare, delimitata da un cerchio tracciato su una cartina geografica dal raggio di 20 o 30 chilometri» mi dice un collaboratore del Centro di Volontariato per la Ricostruzione di Minamisoma. «In realtà sono le correnti atmosferiche ad aver marcato il territorio con gli elementi radioattivi». Accade, così, che un’area distante anche cinquanta chilometri dalla centrale sia più inquinata di una che ne dista solo dieci. È il caso del villaggio di Iitate, risparmiato da terremoto e tsunami, ma non dal Cesio 137 trasportato dai venti che, dal mare, vengono incanalati fin qui lungo stretta vallata che si apre sulla centrale atomica. A Iitate non sono bastati i quaranta chilometri di distanza dalla costa per evitare il tracollo. Mentre cammino per le strade deserte del villaggio ascolto il cigolio di un cartello metallico sbattuto dal vento che reclamizza l’ottima carne di mucca per cui l’area era famosa. Non posso far altro che pensare che, quello stesso vento che rinfresca l’aria afosa dell’estate giapponese, porta con sé isotopi radioattivi che inalo senza rendermene conto.
Tutti gli abitanti hanno cessato le loro attività: il macello del consorzio agricolo è un rudere abbandonato, così come lo spaccio di carne che, con i ristoranti sparsi tutto attorno, attirava migliaia di turisti. I prati, un tempo puntellati da mucche al pascolo, sono sconvolti dalle ruspe che cercano di ripulire il terreno. Nelle campagne attorno alla città di Fukushima questo lavoro è stato già portato a termine: «Le aree antistanti scuole ed ospedali sono state scavate per dieci centimetri ed il suolo contaminato è stato ricoperto da terra non inquinata» spiega Sachiko Goto, una contadina la cui fattoria coltiva frutta biologica, di cui la regione di Fukushima era una delle principali produttrici del Giappone. La maggior parte dei contadini della zona si è trovata in difficoltà a causa del crollo della domanda dei loro prodotti: «I consumatori hanno timore che la frutta sia contaminata, quindi la maggioranza delle cooperative che si rifornivano di prodotti biologici di Fukushima hanno disdetto gli ordini, mandando sul lastrico numerose famiglie» afferma Sachiko. Lei ha subito “solo” il 20% di contrazione grazie alla sua politica di vendita personalizzata.
Sachiko è un membro del movimento antinucleare sin dagli anni Ottanta, quando il disastro di Chernobyl l’aveva convinta che anche il Giappone avrebbe potuto correre lo stesso rischio. «Nonostante quello che è accaduto, i contadini si disinteressano delle campagne antinucleari» spiega demoralizzata, poi aggiunge: «posso comprenderli: le centrali di Fukushima hanno dato e continuano ad offrire lavoro ben remunerato a migliaia di persone della provincia». La stessa Tepco ha rimborsato il 50% delle perdite avute a causa dell’incidente. Nelle elezioni di luglio il Partito Liberaldemocratico (Pld) di Abe Shinzo, a favore della scelta nucleare, nella circoscrizione di Fukushima ha ottenuto il doppio dei voti del Partito Democratico, che nel 2011, quando era al governo, aveva deciso lo spegnimento graduale di tutte le centrali atomiche per alimentare l’intera nazione con energie rinnovabili ed alternative entro il 2040. «In realtà il plebiscito a favore del Pld è stato un chiaro segnale da parte dell’elettorato per chiedere al governo di non temporeggiare ulteriormente sulle scelte energetiche e sulla risoluzione del problema di Fukushima» chiarisce Yasuhiko Niida, presidente della Kinpou, una ditta produttrice di sake di Koriyama.
Il gabinetto Abe, infatti, ha giustificato la sua traballante politica con l’impasse politica di una Dieta per metà a maggioranza democratica e per l’altra metà a maggioranza liberaldemocratica. «Ora non ha più scuse» conclude Niida. Nonostante Koriyama sia distante 50 chilometri dalla centrale, i famosi venti hanno trascinato fin qui alte concentrazioni di ioni radioattivi mettendo in crisi molti piccoli produttori della zona. La Kinpou ha perso il 30% del fatturato, ma Niida è riuscito a mantenerla in vita e, quel che più conta, non ha licenziato nessuno dei suoi venti dipendenti «senza chiedere alcun finanziamento», precisa.
Nata nel 1.711, la ditta è una delle poche in Giappone a produrre sake utilizzando solo riso e, per di più, biologico. «Nel 2011 avremmo compiuto trecento anni di vita, essendo stata fondata dalla mia famiglia nel 1711. Avevamo organizzato una serie di eventi per celebrare l’anniversario, ma ci siamo trovati a lottare per sopravvivere» chiosa Yasuhiko Niida. Ora che le difficoltà sembrano passate si è dato un altro traguardo: «convincere, entro il 2025, quando compirò 60 anni, i contadini del distretto a coltivare esclusivamente riso biologico». Recentemente la prefettura di Fukushima ha deciso di offrire incentivi e risarcimenti proporzionali alle perdite subite a causa dell’incidente nucleare. Il problema è che il fall out si è esteso anche nella vicina provincia di Miyagi ed i produttori non riceveranno nessun tipo di compenso. Shigeki Oota è uno di questi. Una ventina d’anni fa ha abbandonato una promettente carriera all’università di Tokyo per trasferirsi nel minuscolo paesino di Hippo, sperduto tra le montagne al confine tra le due province. Qui, assieme alla moglie Iwasa Miko, figlia di un regista di documentari a sfondo sociale, ha intrapreso l’attività di produttore di miso, la salsa agrodolce utilizzata come condimento. Durante le prime settimane del fall out gli Oota e i loro quattro piccoli figli si sono trasferiti a Tokyo per poi ritornare ad Hippo appena i livelli di pericolosità si sono abbassati. «Il nostro primo figlio era terrorizzato: se ne stava per ore rintanato sotto una coperta con il volto coperto dalla mascherina. Era anche traumatizzato dal dolore di un suo compagno di classe, che aveva perso il padre durante lo tsunami ed il cui corpo non è stato più ritrovato» afferma Miko, poi prosegue: «La centrale di Fukushima ha diviso la comunità: da una parte i nuovi arrivati, per lo più giovani, che volevano che si prendesse una chiara posizione antinucleare.
Dalla parte opposta i contadini radicati nel villaggio, i più anziani, contrari ad ogni tipo di azione per paura che parlare del “problema nucleare” potesse generare un effetto deleterio nei consumatori». Alla fine la maggior parte delle famiglie di più recente immigrazione se ne sono andate lasciando gli Oota pressoché isolati. «Siamo comunque riusciti a trovare una soluzione» conclude Shigeki: «la comunità si è convinta che avere un contatore Geiger che controllasse campioni di riso o altri prodotti, era motivo di cautela sia per loro che per i consumatori». Oggi il villaggio di Hippo ha un misuratore di radioattività bielorusso che determina il valore di Cesio 137. «Il lavoro di controllo è duro e dispendioso sia in termini di tempo che di denaro, ma solo in questo modo possiamo assicurare la salute dei nostri figli» assicura Miko.
L’incidente di Fukushima, nella sua drammaticità, ha contribuito a risollevare il problema del nucleare in Giappone che, sino al 2011, era praticamente relegato alle compagne antimilitari e pacifiste collegate ai ricordi di Hiroshima e Nagasaki. Ora si comincia a parlare con più concretezza e più diffusamente di una nuova politica energetica fatta di fonti rinnovabili, nuove tecnologie e, soprattutto, di risparmio energetico, una parola pressoché sconosciuta tra le famiglie giapponesi. Almeno fino all’11 marzo 2011.
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