LA VARIABILE PUTIN

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 LO fa dopo l’inaudita decisione con cui si è messo in gioco davanti al Congresso. Al G20 i leader stranieri “studieranno” Obama per capire se hanno davanti un futuro presidente dimezzato, passibile di una clamorosa bocciatura della sua strategia sulla Siria davanti ai rappresentanti del popolo americano. Nessuno può sottovalutare l’importanza della sfida, ha ricadute sugli equilibri istituzionali interni all’America, e sulle relazioni internazionali. Nell’immediato, in apparenza il rinvio di Obama rafforza Vladimir Putin, padrone di casa di questo G20. Nella cultura politica di Putin, l’omaggio alla sovranità popolare e al Congresso che Obama ha scelto di fare in questo frangente, è un gesto di debolezza. Il leader russo è all’offensiva, mette sotto processo tutta la politica americana in Medio Oriente senza fare distinzioni tra il neoimperialismo di George Bush e i tentativi di Obama di aiutare le rivolte di natura democratica.
Obama invece userà il G20 per ricominciare il faticoso lavoro di costruzione di una legittimità internazionale per l’intervento militare, a cui non ha rinunciato. Incontrerà i leader di nazioni alleate, una sola delle quali (la Francia) gli ha assicurato un appoggio totale. L’isolamento in cui Obama si era trovato nei giorni scorsi, ha pesato sulla sua decisione: questo è un presidente che all’origine della sua carriera politica denunciò l’unilateralismo di Bush. Si è sentito a disagio nel momento in cui avrebbe dovuto premere il grilletto quasi da solo, circondato dalla freddezza di tanti alleati. Se la sua battaglia cruciale è quella che si svolge a Washington per conquistare il sì del Congresso, la dimensione internazionale non è secondaria anche per i riflessi sul dibattito politico interno. Obama tiene lo stesso linguaggio davanti alla sua opinione pubblica, al Congresso, e ai partner europei o asiatici. Provate a immaginare — è il suo messaggio — quale sarebbe l’alternativa. Pensate, dirà Obama al G20, un mondo nel quale i crimini di Assad rimangono impuniti, la comunità mondiale si arrende davanti alle stragi chimiche di donne e bambini, le leggi internazionali contro le armi di distruzione di massa sono carta straccia. Certo Obama dovrà spingersi anche oltre, dire qualcosa di più di quanto ha detto finora sulla strategia Usa per la Siria e per il Medio Oriente. Tra chi è contrario all’intervento armato, anche qui in America, non pochi si pongono interrogativi legittimi: a che serve un attacco militare limitato, che esclude il rovesciamento di Assad? Esistono scenari realistici per risolvere la guerra civile siriana? Cosa abbiamo appreso dagli infausti sviluppi delle “primavere” in Libia e in Egitto?
Gli alleati dell’America in seno al G20 dovranno interrogarsi sulle ripercussioni delle loro scelte. Ogni democrazia occidentale ha un appuntamento in comune con l’opinione pubblica americana e i suoi rappresentanti eletti. Nei giorni che ci separano dal 9 settembre, quando il Congresso si riunirà a Washington, gli Stati Uniti affrontano quella “conversazione nazionale” che Obama ha innescato con il suo gesto. Devono decidere cioè se ripiegarsi su se stessi — come vogliono le frange estreme dei due schieramenti, i democratici più pacifisti e i repubblicani isolazionisti — e decretare la fine della cosiddetta Pax Americana. Il vuoto di potere che verrebbe a crearsi, ben diverso da un nuovo ordine multipolare, può far comodo alla Cina e alla Russia che subiscono con insofferenza la leadership americana; può esaltare l’Iran e la Corea del Nord finalmente liberi da pressioni esterne. È difficile trovare in una ritirata americana dei benefici per l’Europa, per il Giappone, per l’India, per Israele o per la Turchia. Il G20 dove siede una rappresentanza larga di nazioni che hanno incassato i dividendi della stabilità americanocentrica, è un’ottima sede per provare a immaginare gli scenari alternativi.
D’altra parte, stando alle previsioni (sia pure aleatorie) che si fanno sul voto finale del Congresso, è rischioso anche scommettere su un Obama umiliato e ridotto al rango di “anatra zoppa”, un minipresidente dallo status rimpicciolito fino alla fine del suo mandato. A proposito delle interminabili esitazioni e tentennamenti che caratterizzarono Franklin Roosevelt di fronte a una sfida ben più drammatica — l’avanzata del nazifascismo in Europa — Winston Churchill concluse: «Possiamo sempre contare sugli americani, faranno la cosa giusta, dopo avere provato tutte le altre».


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