La geopolitica della pietra

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 Nel dibattito corrente, ovviamente, condotto e dominato dall’Occidente non si fa cenno alcuno alle soperchierie che le stesse potenze «responsabili» hanno commesso anche in epoca recentissima. Non si andrà qui nella lunga distanza citando l’Algeria o il Vietnam. Basterà ricordare l’aggressione anglo-americana contro l’Iraq nel 2003 e il massacro a puntate dell’Afghanistan. Si tratta pur sempre di una stessa fattispecie: repressione senza esclusione di colpi di una rivolta di massa o di fazioni ad opera dell’autorità in carica. I metodi possono variare, e variano, ma nessuno si sentirà mai di difendere sul piano dell’«umanità» il fosforo usato dalle truppe americane a Falluja o i ripetuti raid dei caccia e dei missili a stelle e strisce contro i villaggi afghani in festa scambiati per covi terroristici. Qual è esattamente lo spread fra propri sudditi e cittadini altrui? Nel concreto, chi avrebbe più diritto alla resistenza fra i palestinesi dopo 46 anni di occupazione militare o semi-militare e i gruppi etnici o religiosi siriani discriminati e colpiti dal regime della famiglia Assad?
Gran parte delle distruzioni di vite umane, risorse sociali e ambientali avvenute in Iraq negli ultimi dieci anni si sono registrate dopo la fine del regime di Saddam, quando gli americani, con la parziale complicità delle stesse forze armate italiane, hanno tentato di «esportare la democrazia» manipolando i rapporti fra le comunità religiose e il loro habitat tradizionale fino a provocare l’Armageddon. Un esito non tanto diverso ha avuto la performance della Nato – per l’occasione l’Italia era schierata a tutto servizio – contro il regime di Gheddafi. Anche qui lo scompaginamento dello stato e della nazione si è consumato molto al di là della pura e semplice resa dei conti fra il Colonnello e i ribelli della Cirenaica e di Misurata. Non è tanto difficile immaginare che quel poco o tanto di infrastruttura civile, sociale e politica che sopravvive in Siria andrà definitivamente in pezzi a seguito del «blitz» ad alta tecnologia che hanno in mente Obama e i suoi generali.
Dopo la fine del bipolarismo si è discusso a lungo in dottrina sulla figura di scenario internazionale che ne sarebbe emerso. Sconfitta l’Urss senza una vera e propria guerra guerreggiata, la guerra aveva perso apparentemente il suo pur sinistro imperio. Sembrò ai più che il sistema si sarebbe adattato a un ordine multilaterale se non multipolare con ampi margini di cooperazione trasversale.
Già nell’immediato – prima in Medio Oriente contro l’abuso connesso da Saddam Hussein a danno del Kuwait e poi con l’operazione Restore Hope in Somalia – si capì però che sulla scena restava la guerra. Approfittando della fine della divisione dell’Europa, anche in Jugoslavia non si trovò di meglio da parte di tutti, attori e comprimari, che mettere in scena una «guerra di successione» in piena regola. Ristrutturazione di territori multietnici, violazione di un confine contestato da tempo, lotta contro la carestia e l’anarchia tribale: i cosiddetti Grandi, ormai, avevano scelto la guerra come percorso obbligato, a costo di un bel salto indietro a prima del 1945. La stessa guerra fredda è durata tanto in virtù dell’auto-restrizione dei veri Grandi. Ci sono state sconfitte mortificanti, per assurdo proprio nella poverissima Somalia, ma il trend non ha subito né modifiche né autocritiche. Non si continua a vantare il Kosovo come esempio di guerra riuscita sorvolando sulla sorte dei serbi e dei luoghi ortodossi?
Quando le Primavere arabe presero un andamento che non contemplava la guerra ci si meravigliò e ci si chiese quanto tutto ciò sarebbe durato. Fortunatamente (per qualcuno) è intervenuta la crisi libica e poi quella siriana. Alla fine in Egitto c’è stato l’intervento dei militari, che è piaciuto un po’ a tutti. Nella penisola arabica Bahrein e Yemen sono entrati di diritto nelle operazioni di polizia internazionale sotto l’egida più o meno congiunta di Stati Uniti e Arabia Saudita. Oggi lo Yemen è una specie di teatro sperimentale per le guerre del futuro senza truppe sul terreno e persino senza piloti sugli aerei, affidata pressoché per intero alla micidiale tecnologia elettronica di droni ospitati ovunque (anche in Italia)
Anche l’attacco contro la Siria è la prova dell’impotenza dei potenti. Di prove false o falsificate sono pieni archivi e cassetti. Ma si dia pure per scontata la «colpa» di Assad. Nessuna grande potenza dovrebbe mai ridursi, com’è il caso di Obama, al punto di non avere un’altra scelta. Stati Uniti e alleati osano agire in prima persona in un conflitto che non è nato ieri, in cui hanno continuamente manipolato, influenzato e corrotto la logica della politica locale senza essere capaci di venirne a capo. Dovrebbero punire se stessi per tanta imperizia e invece, per la legge del forte e del debole, daranno un ulteriore contributo alla sparizione della Siria (dopo l’Iraq e la Libia). Alla lunga, la Siria deve risolvere un terribile problema di state-building.
Coloro che si riempiono la bocca di omaggi a Mandela dovrebbero sapere che la vera lezione di Madiba era di attribuire alle forze esterne solo o soprattutto responsabilità morali: toccava a neri e bianchi del Sudafrica trovare l’accordo per varare lo stato del dopo-apartheid.


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