UN TUFFO ALLA CIECA

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A Washington, dopo le notizie e soprattutto le immagini insopportabili dell’ultimo massacro siriano, è cominciata la fase classica della del “sabre rattling”, del tintinnar di sciabole per creare l’impressione che si intenda far qualcosa senza fare niente. Qualche unità navale americana è stata spostata nelle acque del Mediterraneo Orientale per mostrare la bandiera.

I Turchi, sempre alleati volonterosi, sono stati allertati. Il capo di stato maggiore, generale Martin Dempsey, sta riscrivendo i piani di intervento militare, dal minimo di una «No-Fly Zone», l’interdizione dei cieli, fino all’estrema, e improbabi-lissima, ipotesi di un’invasione, ma la riluttanza degli alti comandi per un tuffo alla cieca nel crogiolo siriano è nota. E il mantra di queste ore è la «Formula Kosovo », quella scelta da Clinton e dalla Nato nel 1998, per pilotare la guerra civile dagli abitacoli dei bombardieri.
Ma nessun piano di battaglia può mai, nella realtà americana, surrogare la decisione dell’uomo che tiene ben strette le chiavi di ogni azione militare, che sia uno sbarco operettistico di Marines nel Caribe come volle Reagan o lo sganciamento di una bomba atomica ordinato da Truman. E questa decisione non arriva, e neppure si intravede. Le voci che parlano per la Casa Bianca e Obama stesso hanno creato la sensazione che esista una «linea rossa» oltre la quale, se Assad la oltrepassasse, la forza militare degli Usa entrerebbe in gioco e la «linea rossa» era l’impiego dei gas, delle armi di sterminio di massa. Questa è la ragione per cui Washington, a differenza dei sempre burbanzosi francesi, esiti ancora ad accusare Damasco di avere gasato centinaia di siriani, e di bambini, nei giorni scorsi. Se l’Onu riportasse la certezza che quei bambini sono morti soffocati dal Sarin e da altri gas tossici, Obama non avrebbe più scappatoie.
Ma il Presidente di quella superpotenza che tutti si affrettano a indicare come il problema del mondo quando interviene e tutti invocano come unica possibile soluzione quando la disumanità esplode davanti alle coscienze, è prigioniero di una doppia contraddizione politica e personale. Fu il candidato alla Casa Bianca che nel 2008 costruì la propria corsa sul rifiuto degli interventi militari e sul ritiro da Afghanistan e Iraq, prima di sterzare in extremis verso l’economia e la finanza collassate a poche settimane dal voto. Non vuole passare ora alla storia come colui che, districati i soldati americani dalle guerre di Bush, li riporta in un teatro di guerra ancora più intricato, ambiguo e oscuro, se possibile, in Siria.
Ascoltare Obama nei suoi interventi pubblici, che in questi giorni lui avrebbe voluto concentrare sull’anniversario della Marcia su Washington di Luther King, dribblare e zigzagare attorno alla questione Siria rivela poi quanto riluttante egli sia, quanto poco falco nell’animo,
di fronte al pensiero di scatenare caccia bombardieri, portaerei, unità da sbarco in Siria. Neppure la sua arma prediletta, quei droni dei quali ha fatto tanto entusiastico uso proprio perché non mettono a rischio nessuna vita americana mentre falciano quelle di altri, servirebbero a molto, nella zuffa assassina fra etnie, clan, signori della guerra, fondamentalisti e zampe di gatto per forze estranee che è la guerra intestina in Siria.
La sua tendenza naturale e istintiva è non fare niente o «guidare da dietro» come già fece il Libia, seguendo, o almeno fingendo di seguire, l’aggressività dei francesi e dei britannici. Lo sa, e lo ha capito, proprio Bashir Assad che non si preoccupa di opinioni pubbliche, di parlamenti, di lasciti storici, ma solo di sopravvivenza e si sente forte dell’appoggio politico russo e dei rifornimenti militari iraniani. Dunque, nel suo disperato cinismo, continua a «vedere» il bluff di Obama, a giocare nelle pieghe delle sue esitazioni per intensificare, finora impunemente, lo sterminio degli avversari. Per lui, a differenza degli occidentali che ancora non sanno se davvero vogliano rischiare vite e tesoro per sostenere la rivolta, e neppure sono troppo persuasi delle loro intenzioni «democratiche », i nemici sono tutti uguali e tutti da massacrare. Un vantaggio tremendo e formidabile.
In attesa che un’autorità insospettabile, magari l’Onu presa in giro da Assad, determini senza possibilità di dubbio che i gas erano opera delle forze governative, Obama tintinna le sciabole. Perfeziona «contingency plan», piani di battaglia, che comunque il Pentagono sempre tiene pronti per ogni situazione, limitandosi a prelevarli dagli scaffali e spolverarli. La sola certezza è che il Presidente sa di essere ormai inesorabilmente risucchiato in quel ruolo di poliziotto, o di paciere, globale che l’America nel quale tutti i suoi predecessori, da Woodrow Wilson cento anni or sono, sono stati inghiottiti, recalcitranti o entusiasti che fossero, perché questo comporta essere America, ciclope in un mondo di lillipuziani rissosi.
Ma se farà qualcosa, non lo farà da solo. Chiederà all’Onu di formare e muovere una coalizione internazionale, come Bush il Vecchio ventidue anni or sono, sapendo di essere respinto dal veto sicuro di Cina e Russia. Poi si rivolgerà alla Nato, come Clinton nel 1998, appellandosi alla dottrina dell’«intervento umanitario». E sarà allora interessante vedere come reagiranno i governi alleati, soprattutto quel governo italiano che forse, nel pieno di un’altra crisi politica e militare internazionale, potrebbe non esserci neppure più.

 


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