La rupia cade, il gigante indiano si scopre vulnerabile

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Adesso tocca all’India. La Borsa di Mumbai, dopo aver guadagnato circa il 25% in un anno, è tornata ai livelli dello scorso settembre, e continua a perdere terreno (l’indice Sensex ha chiuso l’ultima seduta di nuovo con il segno meno, in calo dell’1,7%). La sua moneta, la rupia, nel frattempo si è svalutata di circa il 17% nei confronti del dollaro, e ieri ha toccato il minimo storico: un anno fa bastavano 51 rupie per comprare un dollaro, ieri ne servivano oltre 64. Il rendimento dei titoli decennali del Tesoro indiano è esploso al 9,48%, un livello che non si vedeva da prima del crollo di Lehman Brothers nel settembre 2008, quasi quanto i bond decennali greci, che pagano un interesse del 9,92%.
Nemmeno la nomina di Raghuram Rajan, ex capo economista del Fondo monetario internazionale e docente di finanza alla Business School dell’Università Chicago, per guidare la Reserve Bank of India, la banca centrale indiana, a partire dal 5 settembre, basta a tranquillizzare gli investitori. L’annuncio dei controlli di capitale introdotti il 14 agosto, per frenare la fuga già in atto, ha provocato l’effetto contrario, e adesso prevale il timore che l’India possa arrivare a congelare i fondi degli investitori stranieri. E hanno rassicurato poco le parole del ministro delle Finanze Palaniappan Chidambaram che non accadrà nulla di tutto questo. Da fine maggio gli investitori stranieri hanno venduto titoli del debito pubblico indiano pari a 10 miliardi di dollari e ora detengono soltanto il 43% dei 30 miliardi disponibili, secondo il tetto stabilito dal governo indiano.
L’incertezza in attesa delle mosse della Banca centrale americana, che già da settembre potrebbe cominciare a ridurre il suo sostegno all’economia Usa, in questa fine estate senza troppi scossoni finanziari, guida un generale smobilizzo degli investitori dai Paesi emergenti. L’ondata di vendite colpisce tutti i mercati, in particolare quelli asiatici, ma è l’India che oggi paga il prezzo più alto perché, oltre al malessere globale, sconta problemi tutti suoi. Crescita lenta (4,8% nel primo trimestre dell’anno) per gli standard delle economie emergenti, inflazione alta (9,9% a giugno) e un forte deficit delle partite correnti, che si verifica quando le importazioni di beni e servizi superano le esportazioni e include merci e capitali, ingessano il Paese da troppo tempo, ma in tempi di incertezza e forte nervosismo diventano una miscela esplosiva, che spaventa il capitali straniero, già diffidente nei confronti di un sistema dominato dalla corruzione, diffusa sia a livello politico che amministrativo.
In attesa delle elezioni, in calendario a maggio 2014, governo e Parlamento sono fermi. La debole coalizione di governo del primo ministro Manmohan Singh non riesce a realizzare quelle riforme essenziali per attrarre più capitali a lungo termine e a ridurre l’enorme disavanzo commerciale, che ha raggiunto il record di 87,8 miliardi di dollari nel primo trimestre di quest’anno, pari al 4,5% del suo prodotto interno lordo.
Durante il secondo mandato del governo Singh, dal 2009 a oggi, il Parlamento è stato il meno produttivo in quasi trent’anni, secondo uno studio di Prs Legislative Research. E i pochi interventi non hanno sortito gli effetti sperati. A poco sono serviti, ad esempio, i tre rialzi consecutivi, nel corso del 2013, dei dazi (al 10%) sull’import dell’oro, per limitarne gli acquisti, visto che da solo il metallo giallo vale oltre 2 punti del deficit indiano nelle partite correnti.
I problemi dell’India sono lontani dall’essere risolti, perché New Delhi non ha fatto nulla. Non c’è volontà per migliorare la produttività, le infrastrutture o riportare nel Paese gli investimenti stranieri (Fdi), valuta l’analista di Nomura Pradeep Mohinani.
La caduta della rupia così è solo la spia di un malessere più generale di un Paese intero. Grandi aziende comprese. Jp Morgan ha declassato le azioni indiane, che includono giganti del calibro di Tata e Infosys, da «overweight» a «neutro», segnalando che questo non è il momento di aumentare le posizioni.
Secondo uno studio del Credit Suisse, pubblicato la settimana scorsa, le 10 maggiori aziende indiane più indebitate hanno raggiunto un debito lordo complessivo pari a 100 miliardi di dollari, a causa della crisi che coinvolge un po’ tutti i settori, dalle costruzioni alle infrastrutture. E questo mette ulteriormente sotto pressione il sistema bancario.
Tutto questo rende l’India, terza economia dell’Asia, vulnerabile. Anche se nessuno oggi vuole rievocare la grande crisi del 1991, quando l’India, disponendo di riserve appena sufficienti per coprire tre settimane di importazioni, fu costretta a impegnare il suo oro per pagare i conti con l’estero e dovette ricorrere ai prestiti del Fmi, che impose drastiche riforme per liberalizzare la sua economia.
Moody’s nei giorni scorsi ha confermato l’outlook stabile al rating sovrano a «Baa3». E il capo economista della Banca mondiale, l’indiano Kaushik Basu, è intervenuto per dire che la situazione non è così brutta come sembra. «L’India non è nella stessa situazione della crisi del 1991. Il peggio è passato. Nel 1991 avevamo riserve estere sufficienti solo per 13 giorni, ora bastano per almeno sette mesi. Non c’è paragone, siamo molto più forti che nel 1991», ha affermato Basu, che è stato il principale consigliere del ministro delle Finanze indiano fino allo scorso settembre.
Ma se il crollo della rupia rischiasse di innescare nel Sudest asiatico una nuova crisi, che già pare toccare Indonesia e Thailandia? L’inflazione è salita all’8,6% il mese scorso, ha annunciato il governo di Jakarta, e la domanda di carbone, olio di palma e altri prodotti indonesiani continua a contrarsi, peggiorando il suo disavanzo commerciale, che è arrivato a quota 9,8 miliardi di dollari, pari al 4,4% del Pil. Cattive notizie arrivano anche da Bangkok: il Pil è diminuito dello 0,3% nel secondo trimestre rispetto a un anno fa, si tratta della seconda caduta consecutiva che fa entrare il Paese ufficialmente in recessione.
Giuliana Ferraino


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