E in Veneto i giudici assolvono chi «non può» pagare l’Iva
E quando le commesse scarseggiano, nei guai finiscono dipendenti e padroni. Risultato? In mancanza di liquidità, è successo che gli imprenditori abbiano privilegiato gli stipendi delle maestranze, piuttosto che il pagamento dell’Iva.
L’ultima di queste storie l’ha raccontata ieri Il «Gazzettino» di Venezia. Il protagonista è Roberto Tosello, 52 anni, titolare di un’azienda tessile di Cavarzere (Ve). La ditta si chiama «Confezioni Grazia s.r.l». In verità, dovremmo usare il verbo al passato, poiché ormai è fallita. Fatto sta che Tosello finisce sotto processo non avendo versato 220 mila euro di Iva per il 2009 e 158 mila per il 2010. Nel dibattimento, il suo difensore, avvocato Umberto Pauro, riesce a dimostrare che il cliente ha evaso sì, ma utilizzando i quattrini dovuti allo Stato per fronteggiare «gli impegni economici nei riguardi del personale dipendente». Assolto, dunque, «poiché il fatto non costituisce reato»: è il verdetto del giudice Enrico Ciampaglia del Tribunale di Chioggia. La sentenza risale a luglio; le motivazioni sono state depositate in questi giorni. «Nessun rimprovero può muoversi al Tosello – si legge – poiché si è venuto a trovare senza colpe e vie alternative nell’impossibilità di pagare gli acconti Iva». «Premesso che non commento le sentenze – osserva l’avvocato Pauro – dico soltanto che la buona fede del mio assistito è stata riconosciuta». In altre parole, l’imprenditore, valutando la situazione, ha compiuto la scelta ritenuta più corretta.
Sulla stessa linea assolutoria si sono mossi altri giudici di Padova, almeno in due casi: uno riguarda l’imprenditrice Maria Grazia Fedon, scagionata (ottobre 2012) per insussistenza di reato. Era stata denunciata dalla Agenzia delle Entrate avendo omesso il versamento dell’Iva per un importo di 69.704 euro. «Ho agito secondo coscienza – ha spiegato –. Quelli erano i soldi che avevo. Ho preferito dar da mangiare alle famiglie dei dipendenti». E il suo legale, Alberto Di Mauro, commentava: «È un’assoluzione morale, il giudice ha ritenuto più giusto quello che la persona ha fatto». Anche Enrico Stobbia, titolare di una ditta di autotrasporti, travolto dalla crisi (è fallito nel 2009), prima di portare i libri in Tribunale, si è premurato di saldare i debiti, tranne due con il Fisco: 207 mila euro di Iva e 67 mila di ritenuta d’acconto. Ciò gli è costato un processo con l’accusa di omesso versamento. A sentenza, lo scorso luglio, il giudice ha riconosciuto che Stobbia non ha pagato le tasse non perché non volesse saldare il debito con l’Erario, ma per mancanza di soldi. A margine di quel caso, Pasquale d’Ascola, magistrato di Cassazione e giudice tributario a Verona, dichiarava al «Corriere del Veneto»: «Un simile esempio non può costituire la regola. Le tasse si pagano e si devono pagare. In casi eccezionali il giudice può venire incontro, fatto salvo che si dimostri che l’imprenditore non poteva pagare incolpevolmente. Servirebbe – aggiungeva – una modifica nella legislazione penale e il ripensamento della soglia di omesso versamento con cui si finisce a processo». La posizione di Giuseppe Bortolussi, direttore della Cgia di Mestre, formidabile osservatorio sull’Artigianato e la piccola impresa, è netta: «Assolvendo, il giudice applica la legge. La sua non va scambiata per comprensione. Semplicemente riconosce lo stato di necessità. Il punto nodale – incalza – è abbassare le tasse. Nel nostro Paese sono alte e se ne pagano troppe. Così si soffocano le imprese».
Marisa Fumagalli
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