Mongolia: un quadro appeso fra Russia e Cina

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Sali a cavallo e vai da Dio, se non sarai accolto bene riprendi il tuo cavallo e prosegui fino alla prossima luna”. L’anima nomade mongola è profonda e tangibile. Il cemento di costruzioni recenti non può nasconderla in assordanti periferie. Si respira a cavallo nel vento che solletica le dita, s’avverte osservando lontano fino a dove cielo e terra si fondono, quando invadi la strada a greggi infinite di yak, pecore e gazzelle, nella vastità di spazi interrotti dal bianco delle gher (tende). Uno spirito nomade che rassicura ogni anima in cerca di ospitalità, che ha bisogno di aiuto o semplicemente di una sedia da riempire accanto ad un nuovo amico trovato per strada.

Nello Soyombo, simbolo nazionale e denso di significato, yin e yang [il simbolo bianco e nero della religione taoista, ndr] si distinguono e, incastrati fra altri disegni, questi due opposti divisi da un confine deciso e mai chiuso al tocco reciproco, ricordano i due sentimenti contrastanti, meraviglia e timore, che dipingono il quadro posizionato fra Russia e Cina. Chi chiude gli occhi e ascolta Mongolia sente un fascino irresistibile e al contempo un muro pungente, innalzato da difficoltà e mistero.

Quasi 3 milioni di abitanti su una superficie di 1.565.000 km (quasi 3 volte la Francia), il 40% della popolazione è concentrata a Ulaan Baatar, capitale di cui il nome da un “eroe rosso”. Una delle più fredde città al mondo d’inverno, cantiere aperto, incastonata fra steppe, alle spalle del centro case misere s’inseguono e s’alternano a gher. Acido e dolce il gusto dei passi fra vie e periferie: si vedono persone soffrire, altre strette fra la morsa di un passato attuale nomade e un futuro presente occidentalizzato. Fuori dai perimetri urbani la vita segue il ritmo della natura: meraviglioso – come questa terra – ma tremendamente difficile – come è la vita in Mongolia –. L’inverno è una stagione bella, ci si riposa in tenda al calore del fuoco e s’ingrassa per far fronte al gelo, l’estate è periodo di lavoro (turismo e allevamento) e l’autunno è docile stagione. La primavera invece è un momento sofferto: dopo il grande freddo le persone ritrovano il bestiame affaticato, ammalato e improduttivo. Oltre a rimettere in sesto cavalli, yak, pecore e cammelli, le genti devono far fronte alle tempeste di sabbia che dal deserto dei Gobi corrono velocemente fino a disturbare il pacifico volo delle aquile che abitano i cieli delle steppe settentrionali.

Il volo dei rapaci è un abbraccio protettivo per chi lo guada dal basso. Questo volo ci guida verso Binder il paese natale di Gengis Khan. Si narra che il grande e famoso e feroce condottiero dicesse sempre: “se hai paura non farlo, altrimenti fallo senza paura”. L’eroe mongolo incoraggiava il suo popolo con questa frase e oggi rivive in ogni suo sguardo, speranza e preghiera. Nel 1200 ha tirato la tela del dipinto “Mongolia” dal Vietnam alla Corea alla Polonia. Un impero enorme dove, come mi hanno raccontato, le donne potevano camminare dalla Cina a Roma spoglie dai loro vestiti, ed erano sempre al sicuro. Il Grande Khan sosteneva che un uomo senza cavallo è un uccello senza ali, lui che mai abbandonò il suo fedele quattro zampe ha lasciato un insegnamento diffuso fra uomini e donne: approccio pragmatico e lealtà.

Nel verde di sconfinate praterie sospeso dallo sfilare di drappi azzurro seta, il credo sciamanico e i colorati ma sparuti templi buddhisti rimasti vengono accompagnati da un pragmatismo che si può considerare la terza dottrina di sopravvivenza. Le difficoltà che s’incontrano attraversando i vari ecosistemi della Mongolia ricordano nuovamente l’essenza dell’equilibrio naturale: yin e yang, separati, complementari e supremi, ma riempiti da colori immediati, bianco e nero, “pragmatici” all’occorrenza.

Francesca Bottari


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