Al Cairo una giornata di guerra In strada bossoli e tende strappate

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IL CAIRO — Nella notte del Cairo c’è chi piange i morti e chi si limita a contarli, con un macabro esercizio che pretende di avere un significato politico. Ma da ieri l’Egitto è un altro Paese. In guerra con una parte di se stesso, con gli ospedali pieni di feriti, con un governo dimezzato e isolato sul piano internazionale. I militari hanno imposto il coprifuoco (dalle 21 alle 7) e almeno un mese di «stato di emergenza».
La polizia ha impiegato 12 ore per sgomberare i due accampamenti dei Fratelli musulmani, i sostenitori del presidente Mohammed Morsi rovesciato con un golpe militar-popolare (se così si può dire) il 3 luglio scorso. Nella piazza della moschea di Rabaa al Adawiya e a Nasr City vicino all’Università, i bossoli, le cartucce dei lacrimogeni si mescolano con i lacerti delle tende strappate, delle coperte, dei teloni di plastica. Quante vite sono andate perse? Alle otto di sera il portavoce del ministero della Salute fornisce il bollettino: 61 morti e 321 feriti in piazza Rabaa al Adawiya, 21 in piazza Al-Nadha, 16 morti e 68 feriti all’Università. Poi ci sono le altre città: 35 vittime a Fayoum, 45 a Minya, quattro a Helwan e così via. Per ora il totale arriva a 235 deceduti e 2.001 feriti. A questo conto vanno aggiunti i 43 poliziotti che hanno perso la vita. Ma è chiaro che sono numeri purtroppo provvisori, anche se appare strumentalmente esagerata la conta dei Fratelli musulmani: almeno 2.200 «martiri» e migliaia di feriti. Tra i morti figurano anche tre giornalisti.
La mattanza ordinata dal generale Abdel Fattah Al Sisi ha mandato in frantumi i fragili equilibri su cui si reggeva il governo provvisorio che avrebbe dovuto condurre il Paese a nuove elezioni entro nove mesi. Il vicepresidente Mohamed ElBaradei si è dimesso con un messaggio di poche righe: «Mi risulta difficile continuare…». L’abbandono del Premio Nobel per la pace, della figura più conosciuta e credibile fuori dall’Egitto, ha già fatto precipitare le quotazioni del regime militare. Nel pomeriggio, una dopo l’altra, sono arrivate le reazioni dei partner internazionali. Quasi stupita, frastornata quella più importante, l’americana. Il segretario di Stato John Kerry chiede «la revoca il più presto possibile dello stato di emergenza». Poi, però, lo stesso Kerry fa sapere di avere parlato con il ministro degli Esteri egiziano e di «ritenere che il cammino verso una soluzione sia ancora aperto». Il residuo di credito statunitense è l’unico frammento che sfugge al diluvio di condanne: dal segretario dell’Onu Ban Ki-moon, a quello della Nato Anders Fogh Rasmussen; dal premier britannico David Cameron, ai ministri degli Esteri francese, Laurent Fabius e italiano, Emma Bonino. Perfino il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan, accantonato l’ancora fresco ricordo degli scontri di piazza Taksim, ha «deplorato» la violenza della polizia egiziana.
Le diplomazie occidentali, perfino quelle più familiari con questa area come quella britannica e americana, si erano illuse che il blocco dei Fratelli musulmani potesse essere sciolto senza «macelleria messicana» (come avrebbe detto Ferruccio Parri). Certamente si apre un problema serio per i generali del Cairo: la Casa Bianca, che si era fatta convincere ad accettare e poi a giustificare il colpo di Stato di Al Sisi (tirandosi dietro i governi alleati), non mancherà di moltiplicare le pressioni. Per il semplice motivo che Washington rappresenta il polmone d’acciaio di questo Paese alla deriva da tutti i punti di vista. E non solo per l’assegno di 1,5 miliardi di dollari versati, ogni anno, ormai da decenni.
Nei prossimi giorni, probabilmente, si capirà se Al Sisi ha qualche possibilità di uscire dall’angolo. Nel frattempo il generale fa diffondere dalla tv di Stato «Nile news» le immagini di quella che viene definita «una necessaria operazione di ordine pubblico». I morti, il sangue dei feriti, il fumo, le cariche violente della polizia, i cecchini in borghese che sparano dai tetti sulle barricate, il panico dei ragazzini braccati (tra le vittime c’è una sedicenne, figlia di un leader musulmano) si vedono solo sugli schermi delle catene internazionali o delle due tv filo-islamiche, Al Jazeera e Al Arabiya .
«Abbiamo il pieno controllo di tutta la città», proclamano gli ufficiali. Ma sono parole stonate. I sostenitori di Morsi non sono domi. Nonostante la polizia abbia arrestato 150 miliziani armati e diversi leader dei Fratelli musulmani. Malgrado, secondo quanto riferito dal ministero dell’Interno, siano stati requisiti gli arsenali trovati nei campi sgomberati (mitragliette, fucili automatici). Ebbene il popolo degli islamisti, che resta un pezzo importante di questo Paese e il vincitore delle prime e finora uniche elezioni democratiche, non smobilita. Anzi moltiplica gli obiettivi da attaccare. Ieri hanno lanciato molotov davanti al ministero delle Finanze e, nello stesso tempo, si sono scagliati contro 22 chiese cristiane. Il papa copto, Tawadros II, «è rinchiuso in un monastero per paura di essere assassinato», ha rivelato all’Ansa padre Rafic Greiche, portavoce della Chiesa cattolica egiziana.
Nella prima notte di coprifuoco è facile percepire quanto di provvisorio e anche di tragicamente improvvisato via sia anche in questa strategia dell’emergenza. Correndo, mimetizzati in una limousine di rappresentanza, lungo il ponte Sei ottobre, nove chilometri di sopraelevata con vista sul Nilo che arriva fin quasi a piazza Tahrir. Un corridoio d’asfalto, tra i più trafficati nel mondo, sempre, a qualsiasi ora. Ma adesso, nell’oscurità, sul rettilineo infinito così deserto, così silenzioso, si può cogliere la mortificazione di questa grande, fascinosa megalopoli. Si può indovinare il pericoloso sbandamento dell’Egitto, su cui vegliano, solitarie, le sagome dei soldati. Ancora poco e sarà l’alba. E un altro giorno difficile.
Giuseppe Sarcina


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