Tra i «tesori» pubblici spuntano autonoleggi e campi da golf

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ROMA — Un esclusivo golf club e la farmacia comunale. L’ente di ricerca internazionale e il macello pubblico. La Rai e il noleggio di automobili. La partecipazione di un piccolo Comune nelle terme locali e le migliaia di quote possedute dalle Università italiane in consorzi e società di diversa natura. Ma non è la varietà a colpire, quello che sorprende sono i numeri e la loro incertezza. Nessuno, nemmeno il governo, sa con esattezza quante sono. Quelle classificate sono 7.287, ma è poco più di una stima, perché più di tre amministrazioni su dieci non rispondono al ministero, incuranti degli obblighi di legge. Alla fine potrebbero essere tranquillamente più di 10 mila, ma nessun ufficio può attestarlo con certezza: si sa che le srl sono più di 2 mila, le società per azioni più di 1700, le fondazioni più di 400, i consorzi alcune migliaia. Sono le partecipate delle amministrazioni pubbliche, quelle dei ministeri più importanti e quelle dell’ultimo Comune d’Italia. Dentro ci sono i campioni nazionali dell’industria tricolore, dall’Eni a Finmeccanica, ma vi si trovano anche i consorzi boschivi, le assicurazioni delle Province, le quote negli ordini professionali da parte degli enti locali. Una società partecipata dalla pubblica amministrazione ogni 6 o 7 mila abitanti.
E’ una fetta corposa di spesa pubblica che negli ultimi anni si è dilatata a dismisura, talvolta senza alcun controllo: 22 miliardi di euro sono gli oneri a carico delle casse di enti locali e statali, almeno quelli dichiarati (oneri da contratto di servizio o da trasferimenti); ma se fossero molti di più, quelli reali, al ministero diretto da Giampiero D’Alia nessuno si stupirebbe. Se invece delle partecipate si analizza l’elenco delle partecipazioni il numero lievita ulteriormente: due Comuni possono avere quote della stessa società, dunque il numero delle prime è superiore a quello delle seconde. Quante sono? Vale quello che si è detto sopra: esattamente nessuno può dirlo, con un tasso di errore di almeno il 30% le partecipazioni sono addirittura 40 mila, tante quante sono le comunicazioni che sono giunte al ministero della Funzione pubblica per la raccolta della banca dati Consoc. Dati che restano parziali anche per il costo del personale. Solo il 58% dei Comuni lo ha comunicato, per circa 13 miliardi di euro. Mentre per le retribuzioni dei vertici (presidenti, consiglieri e amministratori, circa duemila «poltrone») la cifra complessiva di cui dispone il ministero supera i 140 milioni di euro. In media 70 mila a carica. Si sa anche che i Comuni con più di 50 mila abitanti hanno in media più di 11 partecipazioni in Spa e più di 7 in Srl.
Entro il 30 settembre di quest’anno (termine già prorogato) i Comuni con popolazione inferiore ai 30 mila abitanti dovrebbero per legge dismettere tutte le partecipazioni, al netto di alcune eccezioni, peraltro piuttosto ampie: ultimi tre bilanci in utile, perdite recenti ripianate dal Comune, riduzioni di capitale conseguenti a perdite. Lo stanno facendo? Lo sapremo, forse, nel 2014, quando gli enti dovrebbero comunicare al governo i dati. Gli oneri complessivi e la cifra dei dividendi che queste partecipate garantiscono definiscono in modo più completo la cornice: spesso in perdita, assorbono molto più di quanto siano in grado di produrre secondo logiche di mercato.
Non tutti i servizi pubblici possono o debbono essere gestiti secondo regole di redditività, ma almeno nel settore comunale il rapporto fra dividendi e oneri è di 1 a 10, ulteriore materia di riflessione per il governo. La metà dei dividendi comunali è prodotta in Lombardia, che ha anche il maggior numero di partecipate comunali fra le Regioni italiane.
Negli ultimi anni il legislatore nazionale ha posto un freno alla proliferazione: il boom di costituzioni iniziato negli anni 90 (250 società e organismi all’anno dal 2000 al 2009) si è attenuato, grazie all’introduzione di vincoli e divieti molto rigidi. «Il ricorso ad organismi partecipati al fine di gestire funzioni e servizi dei Comuni è stato accelerato per finalità elusive dei vincoli di finanza pubblica (patto di Stabilità interno) e dei limiti di assunzione del personale», si legge nell’ultimo rapporto del ministero della Funzione pubblica. Che mette a fuoco un’altra dinamica: «Al crescere della quota di proprietà pubblica della società il risultato economico tende a diminuire». Il ministro D’Alia sta per far partire un ulteriore censimento: numero e costo esatto del personale. Per discutere in modo più accurato di dismissioni pubbliche occorrerebbe una ricognizione finalmente precisa anche di questo settore. Non sarà facile.
Marco Galluzzo


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