I RAGAZZI DEL 97° E L’ONORE RITROVATO
TRIESTE. È arrivata, col profumo dei tigli. A un mese dall’omidicio di Sarajevo, la guerra è scoppiata. Trieste, luglio 1914: fra tamburi e fanfare, grida di “urrah” e squilli della “Generalmarsch”, fin dal mattino il Corso è un fiume di soldati e civili in festa; vanno ai treni della ferrovia meridionale, come la bara di Franz Ferdinand quattro settimane prima. Sembrano i topi dietro al pifferaio di Hamelin, e il destino di un intero continente pare risucchiato da un terminal. Partono, e parto anch’io, verso fronti sconosciuti. Dalla terrazza di casa guardo per l’ultima volta il fronte mare e nella foschia estiva la stazione ha i colori di quella parigina di Saint Lazare nel quadro di Monet, pagliuzze d’oro nell’azzurro.
Guerra. “Krieg” in tedesco, “Rat” in serbo. “War” in inglese. Monosillabi-fucilate di un conflitto di cui nessuno immagina la portata. Vienna ha spedito a Belgrado un ultimatum irricevibile ed è finita. Ora si muove la Russia, in aiuto ai fratelli slavi del sud. Poi tocca a Francia e Inghilterra. Che farà l’Italia, si chiedono in tanti. Ma Roma è ancora alleata, e sulla strada della stazione la banda si ferma davanti al consolato d’Italia a suonare la Marcia Reale per re Vittorio, che volterà gabbana. I soldati affluiscono da Trieste, Istria, Dalmazia e retroterra dell’Isonzo. Sloveni, croati e italiani con la stessa bandiera e lo stesso numero: novantasette.
Caro, vituperato novantasettesimo reggimento, ricettacolo di tutte le infamie. Quanto fu denigrato, mi disse mia nonna. Lei non accettava che il fascismo avesse tolto l’onore a quei ragazzi. Che si nascondesse il fatto che triestini, istriani e dalmati avevano combattuto da valorosi su un fronte avverso, e che si fosse inventata la leggenda dei lavativi, i “pomigadori”, detti così dalla pietra pomice di chi lava i piatti in cucina invece di combattere. Il fantastico inno del reggimento diceva “Demoghèla”, cioè “diamogliela”, sottinteso “la fuga” ai nemici. Ma gli italianissimi tradussero in “Diamocela”, sottinteso “a gambe”. Il paradigma della vigliaccheria. Il reggimento poteva solo esser deriso, non compianto.
È venuta a salutarmi l’amica Marina Rossi, studiosa di storia militare, con un mazzolino di fiori da appuntarmi sul cappello, come ai soldati in partenza. Mi dice che poche ore prima qualcuno ha distrutto il monumento a memoria del “97” nella zona del Monte San Michele, sul Carso. Anche la croce è stata fatta a pezzi. È incredibile che quei ragazzi diano ancora fastidio. «Quei poveri fioi iera sempre in prima linea», brontolava mia nonna. E io, pensando a lei, ho cercato nelle vecchie carte per sapere chi fossero davvero, scoprendo che ebbero vita grama e terribile in un posto chiamato Galizia, tra Ucraina e Polonia, il “cimitero dei popoli e delle nazioni”.
La loro fu un’ecatombe, già nel ’14, su un fronte scorticato dal vento e dalla neve. Alcuni ebbero medaglie d’oro: ne scrissero con rispetto italianissimi come Scipio Slataper e Silvio Benco, ma nel dopoguerra la loro memoria fu rimossa. Marina ne conosce ogni segreto, è l’unica ad aver frugato negli archivi russi. Sa che persino alle famiglie triestine che cercavano le tombe dei loro cari — racconta — fu negata ogni noti-
zia, e migliaia di morti scomparvero nel nulla. Anche gli elenchi furono occultati. Non un monumento, non un fiore. E ai reduci, di ritorno da interminabili prigionie in Russia, fu imposto di tacere per conservare il posto di lavoro. La “redenzione” di Trieste iniziò con una bugia.
Ma oggi l’armata-ombra ritorna, il centenario del Grande Macello rompe il tabù sulla storia dei vinti. Trieste e Gorizia tirano fuori documenti inediti dalle cassapanche di famiglia. Montagne di documenti. Ho sentito la voce stridula dell’istriano Silvio Ruzzier uscire da un registratore come dal tavolo di una seduta spiritica; ho ascoltato dai figli l’avventurosa prigionia in Uzbekistan di Viktor Sosic e di Josip Skerk; nella casa piena di libri, divani e matrioske di Marina Rossi ho appreso della guerra tremenda di Domenico Rizzatti da Fiumicello. Inediti favolosi. Per questo c’è nervosismo fra i nazionalisti. Qualcuno non vuole che si restituisca l’onore a quei ragazzi. Ma io lo farò, così come lo restituirò agli italiani di Caporetto, accusati di disfattismo dagli stessi generali che li abbandonarono al loro destino.
Ma c’è una vicenda del “97” che resta più tabù delle altre. La sanno in pochissimi, e non riguarda la lontana Galizia, ma la guerra contro l’Italia del 1915. Una storia che spiega perfettamente l’atto vandalico del San Michele e ne individua i mandanti. Quando l’Italia dichiara guerra, l’Austria non se l’aspetta, il fronte è completamente sguarnito. Cadorna potrebbe sfondare su Lubiana in tre giorni, ma esita, anche lui è impreparato. Così Vienna gioca la carta estrema, manda allo sbaraglio le reclute in addestramento nelle zone più vicine, e fra queste c’è di nuovo il 97° reggimento, con un battaglione di triestini, il decimo. Ma gli alti comandi sono così convinti che cederanno, che esercito e cannoni restano arroccati su Zagabria.
Ebbene, in tre giorni i ragazzini in divisa stendono i reticolati e puliscono la vegetazione davanti alle loro linee per obbligare gli italiani ad attaccare allo scoperto. Saranno fatti a pezzi dalle artiglierie della Terza Armata, ma non molleranno, dando tempo agli imperiali di posizionarsi e sistemare le trincee. Una storia scomoda, più delle altre. Non si poteva dire che italiani “nemici” — sofferenti di quel giogo austriaco che motivava la guerra — avevano sparato su altri italiani. Tanto meno si poteva dire che dei triestini avevano impedito a Cadorna di arrivare a Trieste. Niente tombe dunque, niente lapidi, niente messe.
Ne avrei di storie da raccontare, ma temo che il mio diario diventi altra cosa, una delle città invisibili di Calvino, un porto sepolto di Ungaretti. Ora tutto cambia. Il treno va, sferraglia sul mare. Presto è prima linea.
(5 — continua)
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