«Una sinistra che conta non lascia affogare il Pd»

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La via d’uscita al governo che «propina la cicuta agli italiani» sta nel Parlamento. In una nuova maggioranza composta dai partiti che «vogliono interpretare le grandi esigenze di cambiamento del Paese» e «confrontarsi su un programma di governo snello ma dall’azione riformatrice forte, al cui primo punto c’è la cancellazione del Porcellum». Per poi tornare alle urne. Ma il presidente di Sel, Nichi Vendola, guarda con attenzione e partecipazione anche all’iniziativa politica lanciata tra gli altri da Stefano Rodotà e Maurizio Landini che riunisce forze e movimenti, a partire dalla difesa della Costituzione. Anche se avverte: «Col Pd bisogna mantenere il dialogo». E pure col movimento di Grillo. Perché «l’Arcobaleno lo abbiamo già fatto e sappiamo come è andato a finire».
Il premier Enrico Letta traccia il bilancio dei 100 giorni di governo e conclude: «Gli italiani capiscono che non c’è alternativa alle larghe intese. Siamo a un passo dall’uscita della crisi e dunque è il caso di tenere duro ora e di mettercela tutta». Cosa ne pensa?
Sono stati 100 giorni di assoluta ambiguità, di opacità sul piano istituzionale e morale. Un governo che forza la mano alle camere per aprire un processo di controriforma della Carta costituzionale provando a intervenire su quell’articolo 138 che era stato immaginato dai costituenti come salvaguardia per la Carta rispetto ai rischi di manomissione dei principi fondamentali. Si vuole far credere che i problemi dell’Italia siano dovuti alla vecchiezza della Carta. E domina la più perversa delle confusioni, visto che nella strana maggioranza di governo c’è contemporaneamente chi parla di manutenzione e di interventi significativi ma non sulla prima parte, e chi invece aspira esplicitamente al sovvertimento della forma parlamentare aprendo la strada al presidenzialismo. Ecco, già sul terreno delle questioni istituzionali e costituzionali siamo di fronte a un racconto fumettistico e falsificante, con l’insostenibile leggerezza di chi pensa che si possa governare con saggezza un passaggio tanto rischioso.
Una condizione di «precariato costituzionale», come l’hanno definita Rodotà e Landini lanciando ieri l’assemblea dell’8 settembre e la manifestazione del 5 ottobre. Che parte avrà Sel in questa iniziativa?
Eravamo a Bologna il 2 giugno e saremo in tutte le piazze con chi sta chiamando alla mobilitazione in difesa della Carta.
E se attorno alla difesa dei principi base della Costituzione, in questo contesto di blocco politico e istituzionale, si riunissero con Rodotà e Landini le forze civili sociali e politiche che da tempo sono alla ricerca di un nuovo protagonismo?
Sel non ha voluto intestarsi l’apertura del cantiere di un nuovo soggetto; abbiamo detto «non tocca a noi». Ma siamo a disposizione per un’opera importante che deve avere caratteristiche di forte innovazione culturale e la capacità di mettere insieme esperienze collettive e percorsi individuali. E Stefano Rodotà è una garanzia rispetto ai rischi di minoritarismo. A chi invece potrebbe pensare di riunire tutti quelli che stanno contro il Pd, dico che la sinistra Arcobaleno l’abbiamo già sperimentata a sappiamo com’è finita. Noi abbiamo il compito di tenere aperto il dialogo – anche con durezza – con il Pd, e allo stesso tempo di guardare con estrema attenzione alla fenomenologia del M5S. E poi provare tutti insieme a cucire le tante realtà che, in forme anche spurie, rappresentano una domanda di nuova politica. Dalle battaglia sui beni comuni a quelle per i diritti di libertà e per il lavoro. Ecco, credo che la sinistra può rinascere a condizione che curi il torcicollo. Che sappia liberarci da quella sindrome della sconfitta che la porta a essere o massimalista – e massimalisticamente incapace di incidere politicamente – oppure minimalista e capace perfino di estinguersi nell’acqua putrida della governabilità.
Una governabilità messa tanto più in crisi dalla sentenza della Cassazione…
Che accende una luce sulla qualità di chi dovrebbe essere oggi nel ruolo di padre costituente. C’è da rimanere senza fiato dinanzi al tentativo di derubricare la sentenza della Cassazione a un fatto privato, non incisivo sulla scena pubblica. E non accorgersi che siamo al punto terminale di quella guerra durata 20 anni che ha visto la destra berlusconiana scagliata contro i fondamenti della democrazia liberale, impegnata quotidianamente a scardinare l’autonomia delle funzioni giurisdizionali e a bombardare l’architettura che consente l’equilibrio tra diversi poteri dello Stato. Ma al centro di tutto questo c’è veramente un elemento che non è solo politico, ma di modello di civiltà. La destra chiede che venga esplicitamente violato il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge; rivendica un’immunità, una guarentigia il cui fondamento morale dovrebbe consistere nella quantità di consenso politico. È il tentativo di sovvertire quel primato della legge che abbiamo posto a fondamento delle nostre società, avendo appreso la lezione del totalitarismo novecentesco. Su questo si guarda al Pd aspettando di sentire qualche parola approntata a spirito di verità; si vorrebbe scuotere dal suo politicismo estenuante un partito la cui natura e il cui destino non possono che essere la radicale alternativa al ciclo berlusconiano. Pena la deriva verso l’insignificanza, cioè il Pd che prende la strada del Pasok.
Sel può avere un ruolo per fare uscire il Pd da questo vicolo cieco? La domanda è: da dentro o da fuori?
Noi siamo fuori, e mai così lontani come oggi da quel partito e dalla sua inaudita traiettoria.
Perché «mai come oggi»?
Questo Pd sta sostenendo un governo che fa bere all’Italia la cicuta dello scandalo kazako e del permanente scandalo Berlusconi; e di un esecutivo che appare in sbiadita continuità con il governo Monti, dentro una sorta di coazione a ripetere quelle ricette dell’austerity che vengono propinate dalla farmacopea liberista e che stanno soffocando letteralmente l’Europa.
E invece Letta sostiene che siamo a un passo dall’uscita dalla crisi.
È un atteggiamento di propagandismo sul futuribile. Forse il Pil diminuirà un po’ meno nel terzo trimestre? Chissà. Mi pare che siamo a formulazioni piuttosto esoteriche, una specie di Cabala da cui si distillano, più che notizie, impressioni su un futuro remoto in cui l’Italia dovrebbe rimettersi in piedi.
E allora, lasciando da parte le divinazioni, qual è la soluzione? Elezioni subito o dopo la riforma elettorale? Su quali basi sareste disponibili a una nuova maggioranza col Pd?
L’attuale quadro di governo non solo non è la soluzione ma è l’aggravamento del problema. Il feticcio della governabilità è una foglia di fico che serve a coprire il conservatorismo con cui tanta parte delle classi dirigenti europee stanno affrontando la crisi, che è figlia del liberismo e che viene usata come alibi per portare a compimento l’opera di macelleria sociale. E invece proprio perché c’è la crisi bisogna archiviare il liberismo, ricostruire il welfare e irrobustire la dotazione di diritti, avere una legge contro l’omofobia e il reddito di cittadinanza, consentire l’adeguamento dei contratti del pubblico impiego ai livelli attuali del costo della vita; bisogna avere un’idea forte di socialità, di formazione e di futuro per le giovani generazioni. Su questo punto le forze che in Parlamento vogliono interpretare le grandi esigenze di cambiamento del Paese dovrebbero confrontarsi su un programma di governo snello ma dall’azione riformatrice forte, al cui primo punto c’è la cancellazione del porcellum. Per poi tornare alle urne.
Ma il M5S dice «mai col Pd».
Si dà per scontata un’interpretazione della storia recente che è assolutamente mistificata: non sono stati i veti di Grillo a costringere il Pd a prendere la strada d’incontro col Pdl. Di fatto il congresso del Pd si è aperto con l’elezione a scrutinio segreto del presidente della Repubblica. E i cento e rotti che hanno votato contro Prodi non l’hanno fatto per cattivo umore: quel gruppo robusto di parlamentari era il Pd che ha vinto l’improvvisato congresso scegliendo lucidamente la via delle larghe intese. Lo hanno deciso contro la volontà degli elettori e degli iscritti del Pd, e in contrasto col programma elettorale. Il voto contro Prodi è stato un gesto sublime di cinismo che ha segnato questa stagione politica portando quel partito in una condizione imbarazzante, facendolo vivere permanentemente con una crisi di nervi.


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