I rischi del capitalismo alla cinese passano nel canale del Nicaragua

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Si stima che il piano costerà intorno ai 40 miliardi di dollari, cifra quattro volte superiore al Prodotto interno lordo del Paese centroamericano. Sappiamo perché il presidente Daniel Ortega vuole realizzare l’opera: la costruzione del canale difatti contribuirebbe a ridurre la disoccupazione e i diritti di transito potrebbero aiutare il Nicaragua a risalire la china della povertà.
Ma perché una società cinese è pronta ad accollarsi gli enormi costi e i rischi inerenti tale progetto? Secondo un portavoce della ditta, grazie allo sviluppo del commercio globale si prevede in futuro una forte espansione del traffico delle petroliere, motivato in particolare dalla rivoluzione energetica negli Stati Uniti, che incrementa le esportazioni di greggio verso l’Asia dai porti del Golfo del Messico.
Questa storia contiene una lezione importante per i governi e le imprese in concorrenza con la Cina in giro per il mondo. Innanzitutto, le società cinesi possono permettersi di accollarsi rischi considerati inammissibili da altri Paesi. Le società statali possono contare sul sostegno politico e finanziario dei loro governi, un vantaggio commerciale rilevantissimo. Ma persino le ditte che non appartengono direttamente allo Stato riescono ad ottenere con facilità finanziamenti e condizioni favorevoli di investimento se Pechino è convinto che i piani di investimento sono affidabili e in linea con gli obiettivi del governo. In secondo luogo, le imprese cinesi possono stringere rapporti di lavoro con partner che altri considerano troppo rischiosi. La maggior parte delle società si guarderebbe bene dall’investire in un progetto il cui successo dipende dall’affidabilità di un governo come quello del Nicaragua, Paese storicamente ostile agli interessi occidentali, carente di credenziali di investimento e che da un momento all’altro potrebbe decidere di nazionalizzare il canale. Ma il Nicaragua non ha abbastanza amici internazionali per impensierire i suoi ricchi partner commerciali a Pechino. Anzi, le imprese cinesi potrebbero sfruttare la leva diplomatica del loro governo per siglare condizioni commerciali molto più favorevoli rispetto al Canale di Panama.
Questo è il capitalismo di Stato, un sistema in cui i governi ricorrono a imprese statali, o a imprese private ma politicamente fedeli allo Stato, banche e fondi sovrani per raggiungere i loro obiettivi politici. Esso rappresenta un approccio sistematico allo sfruttamento dei mercati per costruire prosperità, assicurandosi al contempo che sia lo Stato a indicare chi trarrà profitto da queste operazioni. Nessun governo oggi pratica il capitalismo di Stato su scala altrettanto vasta o con altrettanto successo come la Cina.
Ovviamente, il terreno di gioco si estende ben al di là del Nicaragua. La Cina sta diventando rapidamente il più grande investitore in America Latina ed è già il principale partner commerciale di grandi Paesi, come Cile e Brasile. Le esportazioni sudamericane verso la Cina sono passate da 5 a 104 miliardi di dollari tra il 2000 e il 2012. La recente visita di Stato di tre giorni compiuta da Xi Jinping in Messico si è conclusa con l’annuncio di un accordo strategico e un incremento negli scambi commerciali, assieme all’assicurazione che il Messico è pronto a riconoscere formalmente che il Tibet e Taiwan fanno «parte inalienabile del territorio cinese». Inoltre, anche il Canada è indaffarato ad allargare i movimenti commerciali in Asia in genere e in Cina in particolare.
A Washington c’è chi si preoccupa dell’espansione commerciale cinese nell’emisfero occidentale, considerandola una concorrenza geopolitica agli Stati Uniti. A Pechino, invece, taluni sono convinti che gli Stati Uniti si stiano rivolgendo verso l’Asia, e la crescente attenzione del governo Obama sui nuovi rapporti commerciali in Asia, assieme al dispiegamento delle forze militari americane nella regione, stanno causando non poco fastidio alle autorità cinesi. C’è chi sostiene addirittura che l’America voglia accerchiare la Cina e soffocarne la crescita.
Ma la Cina non vuole allacciare nuovi legami con il Centro e Sud America nell’intento — in stile sovietico — di stabilire una testa di ponte sulla soglia di casa di Washington. La Cina e le imprese cinesi si stanno rivelando molto attive anche in Africa, in Medio Oriente, nel Sud-Est asiatico e in Europa, per assicurarsi rendimenti sugli investimenti, per aprire nuovi mercati alle esportazioni cinesi, e per garantirsi rifornimenti a lungo raggio delle risorse indispensabili alla sua crescita, creare nuova occupazione, e rafforzare la stabilità in patria.
E tuttavia, se la politica spregiudicata della Cina nel commercio e negli investimenti non sembra incarnare un’avanzata strategica sul grande scacchiere mondiale, ciò non significa che i governi e le imprese straniere non debbano preoccuparsi. Innanzitutto, nelle economie emergenti, le multinazionali private sono in concorrenza diretta con le società statali cinesi, che possono contare sul notevole supporto finanziario e politico del loro governo.
Mentre le imprese straniere si allarmano davanti alla potenza cinese, quello che i governi stranieri dovrebbero temere maggiormente è la vulnerabilità nascosta della Cina. Nel gettare nuovi ponti da un capo all’altro delle economie emergenti, Pechino si va accollando rapidamente non pochi rischi politici, nella gestione dei quali ha ancora scarsa esperienza. In particolare, oggi che l’aumentata produzione energetica interna rende gli Stati Uniti meno dipendenti dal petrolio del Medio Oriente e dell’Africa, una Cina assetata di rifornimenti si ritroverà sempre più direttamente coinvolta negli stravolgimenti politici di quelle regioni. E questo riguarda tutti noi, perché il colosso cinese ancora in via di sviluppo, ma potenzialmente instabile, ben presto sarà la più grande potenza economica mondiale, e inevitabilmente verranno a crearsi tensioni e conflittualità che devono preoccupare chiunque tratti con la Cina e abbia a cuore la stabilità economica globale.
(Traduzione di Rita Baldassarre)


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